Testimonianze
Sono Loredana, ho 62 anni, sono nata e cresciuta a Milano, ma oggi abito in un piccolo paese in provincia di Pavia con la mia famiglia: marito e due figli. (altro…)
Mio fratello è un paraculo! Se dovessi descrivere la situazione anatomicamente, direi che io sono il cuore e lui è il cervello. (altro…)
Mi sono ripromessa di stargli vicino e di fare in modo che, compatibilmente con le sue difficoltà, potesse vivere una vita il più soddisfacente possibile. (altro…)
Per noi fratelli e sorelle di ragazzi e ragazze con disabilità i riflettori sono sempre spenti.
È una delle principali caratteristiche dell’essere sibling (altro…)
È da una decina di anni che io e Luca parliamo di andare a vivere per conto nostro, e ora abbiamo deciso di farlo davvero. (altro…)
Abbiamo sempre paura di non passare abbastanza tempo con il nostro fratello minore.
I momenti che trascorriamo insieme a lui ci sembrano sempre troppo pochi (altro…)
All’inizio non è stato facile adattarsi alla nuova routine: è come se ti buttano nel campo di calcio senza aver mai fatto la scuola (altro…)
Credo che una persona debba conoscerti per quello che sei. Se sanno che c’è di mezzo una disabilità, ti guardano con occhi differenti e non dicono le cose che pensano (altro…)
Ho sempre temuto di deludere le aspettative dei miei genitori, perché essendo io la figlia sana, tutte le speranze erano appuntate su di me (altro…)
Con Benedetta c’è un rapporto più forte, un legame più profondo. Io le voglio tanto bene, ma vorrei che le cose andassero meglio tra noi (altro…)
L’idea di dover vivere in funzione di una altra persona, nella fattispecie mia sorella, mi faceva soffrire. E come se non bastasse a volte avevo la sensazione che tutto l’investimento che facevo su di lei fosse inutile e non desse alcun frutto
Martina ha 24 anni e vive con la sua famiglia al centro storico di Napoli, dove studia Lingue e letterature straniere. Sua sorella Valentina ha 21 anni e la Sindrome di Lennox Gastaut (LGS), una forma di epilessia rara con una prevalenza di circa 15 individui su 100.000. La malattia, che esordisce solitamente tra i 2 e i 7 anni, interessa il 5-10% dei pazienti epilettici e l’1-2% del totale dei casi di epilessia infantile. Tra i sintomi più caratteristici ci sono le crisi epilettiche multiple e il lieve ritardo mentale, associato a disturbi della personalità. “Siamo soltanto noi due – esordisce Martina –. Valentina ha 21 anni, ma è come se ne avesse 4 o 5 anni per alcune cose e 2 anni per altre, perché ha un vocabolario molto ristretto e parla solo per piccole frasi. Insomma è una grande cucciolona – sorride –. Fortunatamente col tempo è migliorata molto. All’inizio le davano farmaci che la sedavano”.
Pur somigliando per alcuni aspetti a una bambina, Valentina ha però il suo caratterino: “Il suo segno zodiacale è lo scorpione, e si vede – precisa sua sorella –. Se le fai un torto non dimentica. Per esempio, se la mattina la sgrido, la sera mi si avvicina e mi dà un pizzicotto. Ma forse – riflette –dipende anche dai noi che la trattiamo sempre come una bambina. Per esempio, a lei piace molto stare con i nostri genitori e se io mi avvicino è gelosa e li tira a sé”. Valentina trascorre la maggior parte del tempo in famiglia. “Purtroppo non va a scuola da tanto tempo, si è fermata alle elementari – racconta Martina –. All’epoca la maestra di sostegno la teneva quasi sempre nel corridoio. Per lei era difficile restare tutto il tempo ferma sulla sedia. Poi ha lasciato la scuola perché, essendo diventata troppo alta, non riuscivano più a controllarla. Per un po’ ha frequentato i centri diurni, ma ha smesso quando è diventata maggiorenne. Un periodo faceva anche riabilitazione in acqua e la cosa è andata avanti per circa due anni. La prima volta che l’ho vista in piscina mi sono commossa tantissimo”.
Pensando ai primi ricordi insieme a a sua sorella, Martina dice: “Purtroppo non mi ricordo più nulla di quando avevamo ancora una vita normale. La prima manifestazione della malattia è avvenuta quando Valentina aveva circa tre anni. Prima di allora parlava e cantava, abbiamo ancora i filmini di quando stava bene. Dopo la prima crisi epilettica ha cominciato però a regredire. Ricordo tuttavia quando andavo alla scuola materna e i miei mi venivano a prendere insieme a lei: ho impressa nella memoria l’immagina di questa bambina molto piccola seduta tra i banchi della scuola d’infanzia”. I ricordi successivi riguardano l’esordio della malattia: “Mi ricordo la prima crisi di Valentina, almeno la prima a cui ho assistito io – prosegue Martina –. Rivedo ancora mia madre e mio zio che la prendono in braccio e cominciano a cullarla e poi la portano di corsa all’ospedale. Non potrei ricostruire i particolari, è come un flash”. Seguono i peregrinaggi tra i diversi ospedali, prima a Napoli e poi a Roma, fino alla diagnosi di sospetta LGS, ma a oggi nessuno sa dire per certo cosa sia avvenuto a Valentina e per quali ragioni. Al di là della diagnosi, la piccola Valentina continua a non stare bene ma la sua sorellina maggiore è ottimista: “All’inizio ero molto speranzosa, non immaginavo che si trattasse di una condizione definitiva – dice ancora Martina –. Una volta ho espresso la mia angoscia a mia zia, che fa la logopedista, e lei mi ha rivelato che non si trattava di una condizione temporanea, ma permanente. È così che l’ho saputo. Ricordo di aver pianto tanto in quell’occasione”.
Nei confronti di sua sorella, Martina ha dei sentimenti ambivalenti. Trascorre molto tempo insieme a lei e alla nonna, che abita al piano di sopra “Da una parte volevo fare le cose che facevano gli altri bambini, dall’altra c’era mia sorella che aveva bisogno di me. Mia zia aveva suggerito alcuni giochi utili per potenziare le sue abilità e io li facevo con lei. Ricordo l’abaco in particolare. A volte però provavo rabbia nei confronti di mia sorella e poi sensi di colpa per il fatto di provare questo sentimento. I miei genitori non mi facevano mancare nulla, ma io cercavo di non essere di peso: non chiedevo aiuto per i compiti né regali. E poi li vedevo solo a sera, perché lavoravano tutto il giorno, passavo la maggior parte del tempo con mia sorella e mia nonna. Così quando arrivava l’ora di cena e ci ritrovavamo tutti insieme, generalmente ero taciturna”. Per Martina le cose peggiorano con l’adolescenza. “All’inizio la mia vita non era molto diversa da quella degli altri bambini. Quando mia nonna era più giovane, mia zia accompagnava me e i miei cugini a fare sport e altre attività. Ma con l’avanzare dell’età la nonna ha cominciato a sentirsi più stanca e allora era necessario che io fossi sempre presente, perché da sola non ce la faceva a occuparsi di mia sorella. Era così che nasceva la rabbia: l’idea di dover vivere in funzione di una altra persona, nella fattispecie mia sorella, mi faceva soffrire. E come se non bastasse a volte avevo la sensazione che i miei sacrifici, tutto l’investimento che facevo su di lei fosse inutile e non desse alcun frutto. Quando ero piccola – riflette Martina – sentivo di poter fare la felicità della mia famiglia. Ma quando mi sono accorta che, nonostante i miei sforzi, non potevo salvare il mondo ho provato rabbia”.
Col passare del tempo le cose cambiano un po’ per Martina, che comincia man mano a crearsi una vita più autonoma rispetto a quella della sorella. “Alla fine delle scuole medie ho cominciato a non voler più fare i giochi con Valentina. Non so esattamente come sia successo, ma a un certo punto ho ammesso a me stessa che per me si trattava di un peso”. Malgrado la presa di coscienza, alcune difficoltà restano: “I miei rapporti con gli altri, anche con le amiche, erano un po’ difficili. C’era qualcosa dentro di me che mi diceva che non potevo essere come loro. Avvertivo come un senso di pesantezza e, quando andavo alle feste, mi sentivo vecchia. Al liceo, per fortuna, ho incontrato nuovi amici, ma avevo ancora molta strada fare. E così, dopo un anno molto difficile in cui avevo perfino pensato di lasciare la scuola, ho capito che avevo bisogno di aiuto e, con l’appoggio di mia zia, sono andata al consultorio, dove mi ha seguito prima una counselor e poi una psicologa, con cui ho intrapreso un percorso durato due anni. Pur avendo tratto beneficio da questo percorso, vedevo però che intorno a me le cose non cambiavano e la mia vita era quella di prima: il pomeriggio dovevo stare a casa per restare accanto a mia sorella. La situazione è effettivamente migliorata solo qualche tempo dopo, quando abbiamo fatto una terapia familiare per un anno e, ora che sono diventata più grande, tutto va molto meglio”.
Oggi Martina sembra davvero soddisfatta della sua vita. “Innanzitutto ho tanti amici a cui voglio molto bene – chiarisce –. Le mie relazioni personali sono molto più semplici di quanto non fossero un tempo e io non mi sento più vecchia come mi sentivo una volta. Poi studio materie che mi piacciono e faccio tante cose che amo: scout, capoeira, teatro. Il teatro, in particolare, è la mia passione e il mio sogno è quello di farne il centro della mia vita: la cosa più bella, ovviamente, sarebbe riuscire a fare l’attrice, ma mi piace molto anche il cosiddetto teatro sociale”. Soprattutto, però, Martina si sente finalmente “fiduciosa”: “Da quando ho raggiunto una maggiore consapevolezza sono diventata una persona più serena e ho capito che i problemi si affrontano”, sottolinea. Importante anche l’incontro con l’Associazione famiglie LGS Italia. “Collaborando con loro mi sento meno sola e mi fa piacere stare con persone che portano avanti tante attività e non si piangono addosso – precisa –. Anzi ho cominciato anche a fare qualche lavoretto per l’associazione, come effettuare traduzioni di articoli scientifici. Mi piacerebbe però che anche le istituzioni facessero qualcosa di più concreto per migliorare la qualità della vita dei cittadini disabili”. Se pensa al futuro Martina è altrettanto ottimista: “Ora che ho finalmente compreso cosa voglio fare da grande mi sento molto più serena – conclude –. Sono fiduciosa nei confronti dei progressi della medicina e, soprattutto, che riuscirò a realizzare i miei progetti. Così, dopo averli portati avanti per 10-15 anni, potrò tornare a stare accanto a mia sorella e a occuparmi di lei. Valentina rimane, comunque, la persona più importante della mia vita”.
Angela, Concetta, Francesco Pio e Riccardo sono le sorelle e i fratelli di Giuseppe, un ragazzo di Merate, in provincia di Lecco, che qualche mese fa ha aperto un canale YouTube (Giuse’s Life, Oltre la malattia)per raccontare la sua quotidianità. Giuseppe ha 18 anni, frequenta il liceo linguistico e ha la distrofia muscolare di Duchenne, la più severa tra le distrofie muscolari, che colpisce 1 su 5.000 maschi nati vivi. È un giovane allegro e ricco di interessi, determinato a non identificarsi con la sua malattia. Nel primo dei video pubblicato su YouTube, Giuse si racconta: adora leggere e passeggiare nella natura, ama la regione Puglia dove è nato ma la città del suo cuore è Parigi, gli piace la primavera ed è molto goloso. Tra i cibi che considera irresistibili ci sono le lasagne, le orecchiette al pomodoro e, naturalmente, il cioccolato. Il suo cantante preferito è Alvaro Soler e, grazie alle sue canzoni, si è appassionato alla lingua spagnola. La materia scolastica che predilige è la storia, perché insegna qualcosa sul passato, ma anche sul presente e sul futuro. E come tutti i ragazzi della sua età, fa un grande uso dei social: in particolare utilizza Facebook per stare vicino agli amici e alla sua famiglia in Puglia e Instagram per pubblicare le sue foto e incontrare persone che hanno i suoi stessi interessi. In quanto fratello maggiore, Giuseppe rappresenta un punto di riferimento per la piccola tribù formata dai suoi fratelli e dalle sue sorelline, che nel video pubblicato su YouTube vengono chiamate le “sorelle di sangue”.
Francesco Pio (10 anni): “Per me avere un fratello maggiore in sedia a rotelle è una cosa normale, perché ci sono abituato. Giuseppe ci aiuta a fare i compiti, usciamo tutti quanti insieme e ci fa sempre divertire. Però ci sveglia presto e, a volte, fa arrabbiare la mamma perché vuole la sua libertà. Succede soprattutto la mattina, perché si sveglia spesso di malumore. Ha un carattere forte e permaloso, ed è troppo ordinato: vuole che tutto sia in ordine ed è fissato con la pulizia. Poi, quando grida non si ferma mai e vuole avere sempre ragione. La cosa più bella è che fa sempre ridere, soprattutto quando litiga con la mamma”.
Concetta (10 anni) e Angela (12 anni): “Per noi è Giuseppe è come tutti quanti gli altri, solo che ha bisogno di più aiuto. È coccolone e ci aiuta a fare i compiti, ci porta a passeggiare e ci fa conoscere sempre nuovi posti. A volte litighiamo perché noi vogliamo uscire con lui, ma lui vuole uscire da solo. Dice che ha bisogno della sua privacy e della sua libertà, ma a noi questo ci fa arrabbiare. È gentile, ma è anche un po’ permaloso e molto brontolone: si lamenta per ogni cosa, soprattutto per la pulizia, e dice che non dobbiamo uscire per via del coronavirus. Abbiamo un bel rapporto con lui, ci facciamo sempre le coccole, guardiamo i film insieme e parliamo di come si comportano gli altri fratelli. E poi facciamo giochi da tavolo e tanti picnic. Ci protegge sempre, quando qualche compagno di classe ci dice cose brutte, lui ci parla e risolve le cose”.
Riccardo (15 anni). “Per me Giuseppe è un ragazzo come tutti gli altri, solo che ha bisogno di qualche aiuto in molte attività quotidiane, tutto qua. È molto intelligente e va molto bene a scuola, anche se, quando gli chiedo aiuto per qualcosa che lui ha fatto qualche anno fa (andando entrambi nella stessa scuola), non mi aiuta per niente. Inoltre, ora che ha 18 anni, può portarmi a fare cose che i nostri genitori magari non acconsentirebbero a lasciarci fare, come per esempio i piercing e, chi lo sa, anche i tatuaggi! Di difetti, beh, ne ha tantissimi, ma elenco soltanto i tre principali: è testardo, rompiscatole e, a volte, molto antipatico. Inoltre predilige le sorelle rispetto a me e Francesco. Che i nostri genitori si comportino con lui in modo differente è normale e ovvio. Non credo abbia più vantaggi rispetto a me, solo che a volte, quando combino qualche cavolata, mi puniscono, mentre quando Giuseppe fa qualcosa che non dovrebbe fare, capita che non lo puniscano e che facciano finta di niente. Insomma, si legano molto più al dito le cavolate che faccio io rispetto a quelle che fa mio fratello, tutto qui”.
Nostra madre ci tratta allo stesso modo, però si aspetta un aiuto maggiore da me soprattutto per quelle cose che mia sorella non riesce a fare. (altro…)
Mio fratello non si lamenta mai della sua situazione e, anzi, tende a scherzarci su. A differenza di me e mia sorella, che a volte ci facciamo problemi per delle sciocchezze, prova a vivere tutto positivamente
Davide ha quasi 20 anni e vive, insieme alla sua famiglia, a Castello di Annone, un piccolo comune alle porte di Asti. Dopo aver frequentato il liceo linguistico si è iscritto alla facoltà di Economia, nella vicina Alessandria, che raggiunge in poco più di 20 minuti di treno. Ha un fratello, Matteo, che ha 18 anni, e una sorella minore, Gloria, che di anni ne ha 12. Matteo, che ha appena terminato il quarto anno dell’Istituto tecnico agrario, ha la Distrofia muscolare di Duchenne, una patologia neurosmuscolare che colpisce quasi 1 su 3.500 nati maschi e si manifesta nella prima infanzia, con problemi di mobilità destinati, col tempo, a peggiorare fino alla perdita dell’autonomia. “Come tutte le storie di sibling, anche la mia storia ha delle particolarità: è una vita diversa rispetto a quella dei miei coetanei senza fratelli o sorelle disabili”, esordisce Davide. “Non è una vita né peggiore né migliore, ma semplicemente diversa, perché sono le dinamiche familiari a essere diverse. Bisogna imparare a essere più autonomi e a mettere da parte la gelosia e la possessività, quando vedi che tuo fratello ha un assistente che lo aiuta al posto tuo o della tua famiglia”.
Eppure, avere un fratello disabile, per Davide, presenta anche degli aspetti positivi. “Come quando ho avuto la possibilità di partecipare ai gruppi di auto-aiuto del progetto Rare Sibling”, spiega. “Perché a me piace conoscere gente. O come quando puoi entrare al cinema o al museo gratis per accompagnarlo. È un vantaggio anche per Matteo che, siccome non paga, qualche volta torna a vedere lo stesso film con un nuovo accompagnatore”. Quanto a suo fratello, Davide lo descrive così: “Ha un caratterino un po’ complicato, “strano” lo definisco io, ma forse mi sembra così solo perché è molto diverso da me. Per esempio, lui ama molto la natura e stare all’aria aperta. Noi viviamo in campagna, e mentre a me piace stare dentro, lui adora trascorrere il tempo all’esterno. Per il resto, gli piace giocare alla playstation e va matto per i motori: di ogni persona che conosce si ricorda che macchina ha, anche a distanza di molto tempo”. Ma visto con gli occhi di Davide, Matteo è anche “pignolo” e “testardo”: “Vuole tutto e subito”, chiarisce. “E quando chiede qualcosa, pretende che venga fatta immediatamente”. Al contrario di Matteo, Davide si sente “più cittadino”. “E poi amo il calcio” aggiunge. “Prima giocavo, ora lo seguo in tv, tifo per la Juve. Ma anche dal punto di vista degli studi io e Matteo siamo diversi, a lui piacciono la fisica e la chimica, ma quando si tratta delle lingue non è come me, non riesce a spiccicare due frasi messe insieme”.
Davide era troppo piccolo per ricordare qualcosa dell’esordio della malattia e del successivo percorso diagnostico, che ha portato i medici a certificare la presenza della Distrofia muscolare di Duchenne quando Matteo aveva pochi anni di età. Ma anche degli anni seguenti non ricorda un granché: “Sono i miei genitori a raccontarmi di quanto fossi protettivo con lui quando frequentavamo la scuola materna e poi elementare”, racconta. “Ero sempre preoccupato che lui potesse cadere e farsi male. Da parte mia ricordo solo che, da piccoli, giocavamo spesso insieme, mentre ora ognuno va per la sua strada. Ma il nostro rapporto è buono, e quando arriva il momento, si capisce che siamo molto uniti, anche se non ce lo diciamo espressamente. Come quando io ho provato gelosia per l’arrivo dell’assistente, che segue Matteo da circa un anno. È un bravo ragazzo, gioca con lui alla playstation e lo incoraggia a scrivere poesie, mentre con me giocava a tamburello, uno sport molto diffuso dalle nostre parti. Eppure, ogni tanto, il fatto che sostituisca le figure genitoriali mi dà un po’ fastidio”.
“Tra i tre e i cinque anni Matteo camminava ancora, ma non riusciva a correre”, spiega suo fratello. “Qualche volta, quando era a casa, cadeva all’improvviso. Poi, qualche anno fa, si è rotto il femore e, allora, la carrozzina manuale, che usava alle scuole medie, è stata sostituita da quella elettrica, che usa tuttora”. Riguardo ai genitori, invece, Davide sottolinea la loro imparzialità rispetto ai figli. “Sono stato sempre seguito, non posso rimproverargli nulla. Anche se poi, quando passiamo troppo tempo insieme, come durante la quarantena, sento un po’ il peso della famiglia”. Parlando di sé, Davide si definisce molto autonomo: “Sono un tipo a cui piace andare in giro e non ho difficoltà se devo raggiungere in macchina un posto che non conosco. Non ho problemi di timidezza e mi rapporto serenamente con ogni tipo di persone, ma non posso dire se questa maturità dipenda dalle mie caratteristiche personali o se dipenda, almeno in parte, dalla presenza di mio fratello. Quanto a lui, non si lamenta mai della sua situazione e, anzi, tende a scherzarci su. Non si scoraggia mai e, a differenza di me e mia sorella che a volte ci facciamo problemi per delle sciocchezze, prova a vivere tutto positivamente. Ultimamente, insieme ad un suo amico friulano dell’associazione Parent Project, ha aperto una pagina Instagram chiamata MatteoTose_e_JakyVerardo in cui postano foto di ragazzi con la Duchenne e fanno sensibilizzazione sulla malattia. Insomma, credo che da lui dovremmo imparare la serenità e l’ottimismo con cui porta avanti la propria vita”. E il futuro? “Per me immagino una vita tradizionale, con un lavoro e una famiglia. Il mio sogno è fare il cronista sportivo, ma so che non è semplice e quindi sono aperto a tutte le possibilità. E poi spero che anche Matteo abbia una vita propria, con o senza una compagna, e che possiamo continuare a vederci spesso e a fare cose insieme, come tutti i fratelli”.
Sì, qualche volta ho un senso di colpa: un tempo pensavo perché non possiamo dividere la sofferenza a metà, perché non posso prendere metà della sua malattia?
Originaria di Roma, ma residente con la sua famiglia a Bracciano, comune a una quarantina di chilometri dalla Capitale, Flavia ha 18 anni e ha appena terminato il quarto liceo scientifico. Suo fratello Gianmarco, di due anni più grande di lei, è al primo anno della facoltà di Farmacologia ed è affetto da esofagite eosinofila, una patologia infiammatoria dell’esofago estremamente rara, scoperta solo negli ultimi anni, il cui sintomo più comune è la difficoltà di ingerire cibo, accompagnata da dolori all’addome, al torace e allo. “Siamo abituati a parlare della sua malattia”, chiarisce subito Flavia. “È una cosa che la nostra famiglia fa spesso.D’altra parte mia madre è presidente dell’associazione Eseo Italia (https://www.eseoitalia.it/), di cui mio padre è il vice presidente e un’amica di famiglia la tesoriera”. Lo scopo di Eseo Italia è informare, sensibilizzare l’opinione pubblica e assistere le persone persone colpite da esofagite eosinofila e, al momento, la onlus conta circa 55 famiglie iscritte e altrettante che, pur senza un’adesione formale, prendono parte alle attività.
“Mio fratello Gianmarco è un guerriero”, esordisce Flavia quando le chiedi di parlare di lui. “È uno che non si arrende mai e si mette continuamente in gioco. Ora, per esempio, è in attesa di sapere se potrà partecipare alla sperimentazione di un farmaco chiamato Dupilumab. Per due anni, invece, ha seguito una dieta alimentare costituita esclusivamente da una sorta di latte chimico, in grado di fornire l’intero fabbisogno calorico, ma dal sapore talmente cattivo da dover essere necessariamente assunto attraverso un sondino. È stato un periodo molto duro per lui, si sentiva spesso male e non poteva più praticare sport. Poi il sondino nasograstrico è stato sostituito da una peg e successivamente, piano piano, sono stati reintrodotti alimenti normali. Il problema principale è l’allergia a una proteina chiamata LTP, che si trova più o meno ovunque. Inoltre per aiutarsi a mangiare assume il Budesonide, un farmaco a base di cortisone utilizzato a lungo nel trattamento di disturbi come l’asma e le malattie infiammatorie intestinali. Attualmente stiamo cercando di introdurre una maggiore varietà di cibi nella sua dieta e, al momento, può mangiare latte, grano, tonno, alcun tipi di carne, zucchine e bietole. Ma le intolleranze non sono stabili, sono assolutamente variabili, ogni volta è una storia diversa”.
L’esofagite eosinofila è una malattia invisibile, all’apparenza Gianmarco si presenta come un ragazzo in salute e senza alcun problema. “È un bel ragazzo”, dice sua sorella. “La malattia non si vede e lui ce la mette tutta per non farla vedere”. Ma anche Flavia fa di tutto per aiutarlo: “Io e mamma cerchiamo in continuazione nuove ricette compatibili con la sua alimentazione. È una limitazione molto forte per lui, perché non può mangiare con gli amici e, quando lo fa, non può stare tranquillo. Una volta si è sentito malissimo dopo aver mangiato, per sbaglio, un solo pisello». Quando è finalmente arrivata la diagnosi e, con essa, il nome della malattia Gianmarco aveva 11 anni e Flavia 9. “È stata mia madre a capire”, ricorda. “Mio fratello aveva sempre problemi di allergia, ma i medici erano convinti che mia madre esagerasse, che fosse un tipo particolarmente ansioso, insomma. Eppure i segnali erano tanti: una volta ha rischiato lo shock anafilattico per un po’ di lenticchie e un’altra volta ha vomitato sangue. Insomma, mia madre alla fine si è stufata e ha deciso di fare di testa sua. Così, grazie a una gastroscopia, si sono finalmente scoperti la causa del suo malessere e il nome della sua malattia”.
Di quel periodo Flavia ricorda soprattutto la stanchezza della madre, perché dopo la prima gastroscopia Gianmarco ha subito diversi ricoveri. “Il periodo più brutto è stato nel corso delle scuole superiori”, spiega, “ma fortunatamente è sempre riuscito a stare al passo con gli studi”. Non a caso Gianmarco, nei racconti di Flavia, è un tipo pieno di interessi. Lei lo descrive così: “Gli piace tanto leggere, è un burlone, per me è proprio il massimo: è mio fratello maggiore ed è come se fosse il primo amore. E poi è sempre gentile e responsabile: insomma è esattamente il tipo di ragazzo che una madre vorrebbe come fidanzato di sua figlia. Gli piace anche fare sport”, aggiunge. “Prima praticava pallavolo, ma da qualche tempo ha cominciato a dedicarsi alla salsa bachata”.
Quanto al suo rapporto con i genitori, Flavia è molto chiara: “Sì, spesso mi sono sentita trascurata. Gianmarco ha avuto sempre tante di attenzioni e all’inizio era pesante. Poi però ho compreso che non posso pretendere le stesse attenzioni che ha lui: anzi devo considerarmi fortunata a non averle, lui ne farebbe volentieri a meno”. Inoltre, avere un fratello con una patologia come l’esofagite eosinofila è un’esperienza forte, che ti cambia profondamente: “Sono diventata una persona più sensibile, soprattutto quando si parla di malattie rare”, riflette. “E cerco sempre di aiutare mamma e papà. L’esofagite eosinofila mi ha sicuramente fatto crescere in fretta, ma anche Gianmarco è stato costretto a diventare grande prima degli altri”. Per aiutare suo fratello e i genitori, Flavia si adopera in tutti i modi. “Per un periodo, poiché Gianmarco era risultato allergico alle tracce di altre sostanza presenti nella pasta, io e papà avevamo deciso di fare tutto in casa. Facevo la pasta per lui e provo a inventare sempre nuove ricette, perché lui non può mangiare quello che mangiamo noi. Poi, quando sta male, lo aiuto a fare quello che non può fare, come sistemare la cucina se è il suo turno”.
Pur essendo fortemente legati, i due fratelli hanno un certo riserbo nel trattare determinati argomenti. “Gianmarco mi spiega spesso come si sente esattamente, ma non parliamo mai in generale della malattia. Credo che a questo punto si senta un po’ stanco, è da quando è piccolo che deve fronteggiare le difficoltà legate all’esofagite eosinofila. Per quanto mi riguarda, sì, qualche volta ho un senso di colpa: un tempo pensavo perché non possiamo dividere la sofferenza a metà, perché non posso prendere metà della sua malattia? In futuro”, conclude, “per me non cambierà nulla. Quando eravamo piccoli non ci sopportavamo e litigavamo tutto il tempo, ma ora parliamo e ci confidiamo sempre, specie quando si tratta di vicende amorose. Io voglio conoscere la sua vita, ma anche lui la mia. È come un secondo papà per me, quando ho qualche problema, so di poter contare sempre su di lui”.
È difficile spiegarlo a parole, ma per me non siamo io e lei, non siamo due persone singole, siamo un noi
Maria ha 27 anni e vive a Girifalco, in provincia di Catanzaro. Molto del suo tempo lo trascorre però a Messina dove frequenta la facoltà di psicologia. Per poter studiare, in alcuni periodi dell’anno, viaggia ogni giorno, sottoponendosi alla fatica di lunghi ed estenuanti spostamenti. Perché tra Girifalco e Messina non passano soltanto quasi 150 chilometri, ma c’è di mezzo lo Stretto. La ragione per cui Maria si sobbarca quotidianamente una fatica così grande è perché ha scelto di non lasciare la famiglia, in particolare sua sorella Benedetta che ha 16 anni ed è la terza di tre sorelle, la seconda delle quali si chiama Emanuela e ha 25 anni. Da quando è nata, Benedetta ha una malattia rara chiamata sindrome cardio-facio-cutanea, che comporta una grande varietà di manifestazioni, tra cui ritardo psicomotorio, anomalie cardiache e problemi alimentari.
È un piacere condividere la mia storia, anzi la nostra storia: quella mia e di Benedetta”, esordisce Maria. “È la prima volta che do voce a quelle emozioni, che ormai si susseguono da 16 anni, ma nonostante la timidezza capisco quanto possa essere importante”. Fin dall’inizio, infatti, la presenza di Benedetta condiziona la vita di Maria in tutti suoi aspetti, compreso quello della scelta universitaria. “Ho sempre voluto studiare psicologia”, dice. “Ma quando mi sono iscritta all’università, in Calabria la facoltà non c’era ancora, bisognava arrivare a Messina. Per anni ho fatto la pendolare con orari molto duri, ma non volevo lasciare la famiglia. E così a sera, quando tornavo a casa, mi sembrava di aver vissuto due giornate. Per fortuna ora le cose vanno meglio, perché ho quasi concluso il mio percorso di studi e non sono più costretta a viaggiare ogni giorno della settimana”. Quando Benedetta è nata, Maria aveva già undici anni. “La sindrome cardio-facio-cutanea è stata diagnosticata al Gemelli. È una forma più grave della malattia di Noonan. Benedetta non vede, non parla, non cammina. Noi siamo i suoi occhi, la sua bocca, i suoi piedi. La malattia rara ti pone di fronte alle tue paure: o le affronti o scappi via. E io sono rimasta, anche se ci sono stati dei momenti in cui sarei voluta fuggire. Sono felice di non averlo mai fatto, altrimenti non sarei mai diventata la persona che sono adesso”.
Della nascita di Benedetta, Maria non ricorda tutti i particolari. “È nata a sette mesi”, racconta. “Ci aspettavamo una sorellina che avesse bisogno di molte cure, ma non che ci sconvolgesse totalmente la vita come ha fatto Benedetta. Quando a mia madre si sono rotte le acque, io ero al cinema con le amiche. E quando sono arrivata in ospedale, guardavo le sue labbra così carnose e non capivo da chi le avesse riprese, visto che nessuno in famiglia le aveva come lei. Una volta tornata a casa, qualche settimana più tardi, non era come tutti gli altri neonati. Non beveva il latte dal seno o dal biberon, ma mia madre era testarda e, un po’ alla volta, è riuscita a farle accettare il biberon, che continua ancora oggi a usare al posto del sondino”. Fin da subito, quindi, Maria si rende conto di dover ridimensionare le proprie aspettative: “Avevo atteso con ansia l’arrivo di quella sorellina”, ricorda, “avrei voluto che diventasse quanto più simile a me possibile. Immaginavo già il momento che avremmo studiato insieme o quando avrebbe potuto cominciare a giocare a pallavolo come me. Sono stata sempre molto protettiva con le mie sorelle, volevo fare la sorella maggiore. Quando è nata Emanuela avevo due anni e ho provato gelosia, Benedetta invece rappresentava un po’ la mia seconda occasione: ero davvero felice, pensavo che avrei condiviso tutto il mio mondo con lei”.
“Quando Benedetta è arrivata a casa, lì per lì non comprendevo perché gli altri non manifestassero la mia stessa gioia”, prosegue Maria. “Mi sono resa conto che aveva una malattia rara di colpo, non è una cosa che ho avuto il tempo di comprendere tappa dopo tappa, di metabolizzare un po’ alla volta. È come se avessi aperto gli occhi all’improvviso. Quando gli altri la consideravano diversa perché non riusciva a mangiare, io non capivo. Dopo qualche mese siamo andati a Roma, all’ospedale Bambino Gesù, dove ho visto reparti in cui ti rendi davvero conto di cosa siano il dolore e la tristezza. Lì comprendi cosa sia davvero la sofferenza e quanto possa essere doloroso trovarsi nella condizione di non poter aiutare tuo figlio, tuo fratello, tua sorella. Vedere quei bambini che non riuscivano a fare nulla da soli e avevano bisogno tutto mi sembrava una grande ingiustizia. È intorno a questo periodo che ho compreso cosa succedeva a Benedetta, ma ho capito tutto da sola. Non ho nessun ricordo di mio padre e mia madre che mi spiegavano cosa stesse accadendo, ma solo di me stessa che a un tratto mi rendo conto”.
Dopo la diagnosi di sua sorella, Maria cambia. “Sono diventata ancora più riservata e più timida di prima, ma ne ho preso atto solo più tardi”, riflette. “I miei dicono che sono stata sempre una bambina matura con un forte senso di responsabilità, ma dopo aver compreso la situazione di Benedetta lo sono diventata ancora di più. Non ho nessun ricordo di me come di una bambina monella e combina guai, solo verso i 15 anni ho avuto un breve periodo di ribellione, in cui provocavo i miei, soprattutto mio padre. Nel mio caso non era la classica opposizione degli adolescenti, ma piuttosto un messaggio nei confronti dei genitori: guardate che ci sono anch’io. Solo ora capisco che il mio scopo era quello di attirare l’attenzione, di affermare la mia presenza”. Secondo Maria, quando in famiglia entra una malattia rara nulla può rimanere come prima: “Benedetta ha stravolto la vita di tutti noi”, afferma. “Una malattia rara cancella ogni normalità. Io non ricordo la vita prima che arrivasse lei, quando si poteva andare a fare shopping o a mangiare un gelato senza problemi. Ora, se usciamo, qualcuno deve sempre restare a casa con lei. Non è facile portarla fuori, quando era piccola aveva una grande paura dei rumori, e anche oggi qualsiasi imprevisto può farla entrare in crisi. Uscire è uno stress per lei, e noi la proteggiamo facendo delle rinunce. Benedetta non rappresenta un peso”, precisa Maria, “ma la nostra vita è cambiata da quando c’è lei. Ognuno ha il proprio mondo e il nostro è così”.
“Ho rinunciato alla vita universitaria per godermi mia sorella, perché lei oggi c’è e in futuro chissà”, spiega. “Ho rinunciato anche agli amici, a cui non ho permesso di entrare nella mia vita. Sapevano poco della mia situazione familiare e non chiedevano mai di lei. Per questo mi sono allontanata da tante persone e oggi sono un tipo riservato che trova difficoltà a confidarsi. Loro non chiedevano mai di lei, ma io penso che se vuoi conoscere una persona devi conoscere la sua vita a 360 gradi. Quando le mie amiche venivano a casa, si comportavano con apparente indifferenza, facendo finta di niente. Salutavano i miei genitori, non guardavano neanche in faccia Benedetta e poi ci chiudevamo in camera. Le cose andavano sempre così. Lì per lì quell’atteggiamento mi faceva sentire sollevata, ma poi ho capito che mi faceva male: non c’è mai stato un gesto di coraggio da parte loro. Nessuno chiedeva mai niente e tutti facevano finta di nulla. Forse se qualcuno avesse osato domandare, anch’io avrei osato aprirmi di più. Mia sorella Emanuela era diversa, dopo le scuole superiori ha preferito andare via e ora studia a Torino. Credo che sia stata una fuga, ha scelto di chiudere la porta di casa e andare via, ma è impossibile chiudere veramente con la propria storia”.
Benedetta ha scatenato un susseguirsi di emozioni forti nella vita di Maria, a partire dalla rabbia. “Ero arrabbiata perché questa cosa era capitata proprio a noi. Poi la rabbia è svanita, perché altrimenti non riesci più a vivere”. Eppure una malattia rara, per Maria, può insegnarti molte cose. “La malattia ti offre la possibilità di vedere la vita da altri punti di vista. Prendermi cura di mia sorella mi permette di guardare oltre, cosa che poi si estende in tutti gli ambiti: cerco sempre di non fermarmi al problema, ma di cercare la soluzione”. Certo, in alcuni casi le cose sono difficili, ammette: “A volte mi viene da fermarmi e da chiedere aiuto. Io spero sempre di potermela cavare da sola, ma tutti abbiamo bisogno di una mano”. La convivenza con Benedetta, inoltre, ha orientato le scelte di Maria: “Prima di cominciare a studiare psicologia, avevo scelto Scienze dell’amministrazione. Poiché la facoltà era in Calabria, io non ero costretta ad attraversare tutti i giorni lo Stretto. Poi, però, ho capito che volevo sviluppare altre capacità che pensavo di avere. Voglio imparare ad ascoltare gli altri e a fare per loro quello che nessuno è riuscito a fare per me. Voglio imparare ad ascoltare anche quando le emozioni non vengono espresse a parole e riuscire a cogliere gli stati d’animo di chi mi sta intorno”.
La facoltà di psicologia ha fornito a Maria anche strumenti utili per comprendere meglio e rielaborare la propria situazione. “Ho affrontato l’argomento disabilità durante tutto il corso di studi, soprattutto durante l’ultimo anno quando ho studiato psicologia della disabilità. Studiare per quell’esame mi è costato veramente una grande fatica emotiva: ogni singolo paragrafo del libro di testo era come una montagna da scalare. Poi, per caso, ho trovato il sito del progetto Rare Sibling: ho passato una notte a leggere le storie degli altri fratelli e sorelle e, alla fine, ho deciso di fare la tesi di laurea proprio su questo argomento. Sto cercando di fare un buon lavoro, per certi argomenti ci vuole testa e cuore. Io non ho mai incontrato altri sibling nella mia vita e mi è mancato il confronto con persone che vivessero la mia stessa situazione. Solo chi ha un’esperienza simile alla tua, può capire. Ho un ragazzo che ama mia sorella quanto me, ma tante cose non si possono capire al cento per cento se non le vivi in prima persona”.
In futuro spero di realizzare i miei sogni”, conclude. “Vorrei riuscire ad aiutare chi ne ha bisogno ad essere forte. Ma ho paura di immaginare il futuro di Benedetta, perché voglio che lei sia sempre nella mia vita, non posso prendere in considerazione l’idea che un giorno potrebbe non esserci più. Per me lei è la sorella del cuore, non abbiamo potuto gioire nella maniera che mi aspettavo, ma abbiamo potuto fare comunque tantissime cose insieme, siamo riuscite a compensare in altro modo. È difficile spiegarlo a parole, ma per me non siamo io e lei, non siamo due persone singole, siamo un siamo un noi. In questi anni ho riflettuto molto sulla nostra storia, e oggi sono diventata più consapevole e non ho voluto archiviare nulla. Ho voluto affrontare le cose, prendendo tutto quello che viene e cercando di migliorare ogni giorno”.
Questa è la storia di un amore profondo tra due sorelle che nessuno potrà mai separare, anche se Maddalena adesso non c’è più.
Gaia ha 21 anni e vive a Gubbio, in provincia di Perugia, dov’è nata. Sua sorella Maddalena, di 5 anni più grande, è scomparsa nel 2017. Aveva una malattia rara chiamata Melas, che sta per miopatia mitocondriale, encefalopatia, acidosi lattica e ictus: una sindrome multisistemica progressiva e neurologica, che colpisce una persona su 5mila, tra cui molti bambini nei primi anni di vita, anche se i sintomi possono insorgere nell’adolescenza o nell’età adulta. A lungo andare la malattia può generare la perdita delle abilità motorie e mentali, insieme al deterioramento della vista e dell’udito. “La parola giusta per definire il nostro rapporto è speciale, qualcosa di particolare, che niente e nessuno potrà mai separare”, dice Gaia pensando a sua sorella. “Quando ero piccola, la notte mi infilavo nel suo letto per dormire insieme tra mille abbracci, oggi mia sorella è il mio angelo custode, la mia forza e la mia fragilità, l’altra parte di me”.
“La prima volta che abbiamo avuto un assaggio della sua malattia è stato poco dopo aver raggiunto la maggiore età. In una notte di aprile 2012 si sente male, Maddalena ha una serie di attacchi epilettici, corsa in ospedale e ricovero, una serie di controlli ma nessun risultato fa pensare a una brutta malattia. Maddalena inizia a stare meglio e si torna casa, comincia a recuperare piano piano e dopo qualche mese torna a essere la ragazza di prima. Nel frattempo ripetiamo visite, ma non si riesce ad avere alcuna spiegazione di quanto successo. Nei quattro anni successivi tutto torna alla normalità e iniziamo a pensare che il peggio sia ormai passato. Poi, nel gennaio 2016, la tempesta improvvisa, nuova corsa in ospedale, uno diverso, più grande e, dopo diverse analisi un dottore, ha un’intuizione, potrebbe essere una sindrome mitocondriale e, in particolare, la Melas, una parola quasi dolce che però nasconde qualcosa di orribile. Si alternano poi lunghi ricoveri e periodi che possiamo definire quasi normali, le cose iniziano ad andare un po’ meglio e le manifestazioni della malattia sembrano calmarsi. A gennaio 2017 festeggiamo i miei 18 anni e poco dopo i suoi 23. Dopo qualche settimana cominciamo a notare che Maddalena è sempre più stanca, andiamo in ospedale, dove effettua una visita al cuore. Ci trasferiamo subito all’ospedale di Perugia e, dopo qualche giorno, ci mandano alla terapia intensiva del Gemelli a Roma. Lì passiamo circa un mese tra miglioramenti e ricadute; i primi giorni di maggio Maddalena ha un peggioramento cardiaco importante, i dottori ci dicono di prepararci al peggio e la notte del 5 maggio il suo cuore smette di battere; Maddalena è ormai un angelo”.
“Non è facile raccontarsi in poche parole ma ci proverò”, precisa Gaia, cercando di descrivere come sono cambiati i rapporti tra lei e Maddalena durante il periodo della malattia. “Quando si vive la malattia di una sorella i rapporti che ti legano a lei vengono messi alla prova, nel senso che qualcosa di tanto grande e brutto sembra travolgere l’equilibrio che esisteva, è sempre difficile vedere una sorella soffrire, ma forse è proprio quell’ostacolo che unisce ancora di più e ci si rende conto che niente e nessuno può cambiare quel legame”. Eppure, nonostante l’estremo dolore, Gaia è riuscita a trarre un insegnamento dall’esperienza di sua sorella. “Quando curi una malattia puoi vincere o perdere. Quando ti prendi cura di una persona vinci sempre”, sottolinea, citando Patch Adams, il celebre medico che ha inventato la terapia del sorriso, meglio nota in Italia come clownterapia. “Noi, nonostante tutto, pensiamo di avere vinto, abbiamo lottato insieme, la nostra forza girava intorno al sorriso di Maddy; è stato proprio quel sorriso a regalare forza al nostro cuore”. Anche ora che Maddalena non c’è più, Gaia e i suoi genitori continuano a fare parte di Mitocon, una onlus dedicata alla cura e allo studio delle malattie mitocontriali. “La mia famiglia fa parte ormai da qualche anno, da quando abbiamo scoperto la malattia di mia sorella, dell’associazione Mitocon”, spiega. “Oggi, nonostante tutto, continuiamo a farne parte perché desideriamo fare qualcosa per chi vive una situazione simile alla nostra, sostenendo la ricerca per trovare una cura per chi verrà dopo”.
Pensando al periodo dopo la scomparsa di sua sorella, Gaia cita un episodio in particolare: “Spesso capita che due sorelle abbiano molte cose in comune, una di queste è che possiamo definirci entrambe “pausiniane”: questa passione per la musica di Laura Pausini è stata trasmessa a me da mia sorella sin da piccola, tanto da vivere sempre insieme i suoi concerti. Il 31 ottobre 2018, passato ormai un anno dalla scomparsa di mia sorella, io e mia mamma siamo state a un suo concerto ed è stato un po’ come vivere Maddy, emozionarsi con lei, vivere la meraviglia di essere sorelle…”. Più complicato, invece, raccontare il periodo della malattia: “È un po’ difficile raccontare il periodo più brutto della mia vita”, osserva Gaia. “La malattia di mia sorella ha stravolto la vita della nostra famiglia, tra ricoveri e situazioni difficili da affrontare; nonostante i numerosi e lunghi periodi in ospedale i miei genitori hanno comunque cercato di far vivere a me una realtà normale: andavo a scuola, prendevo qualche lezione di canto, trovavo dei momenti di serenità e, quando riuscivamo a stare tutti e quattro insieme a casa, ritrovavamo la felicità nei piccoli momenti. Nel mio cuore in ogni istante tornava il pensiero di quanto ancora la malattia di Maddy ci avrebbe fatto soffrire”.
“La notte in cui Maddy è diventata un angelo, insieme a lei se ne è andata una parte del mio cuore… in quei giorni pioveva sempre, sembrava come se ogni singola goccia di pioggia fosse una lacrima. È Maddy che piange, mi dicevo; è stato difficile ritrovare il sorriso e quella serenità di cui avevo bisogno. Ho avuto paura di dimenticarmi di lei, dei nostri meravigliosi ricordi insieme, ma so che non è così: una sorella non si dimentica, una sorella si ama, posso prendermi cura dei nostri ricordi. Sarà sempre parte del mio cuore, sarà sempre l’altra parte di me!” Per concludere Gaia dedica a sua sorella una frase tratta da una canzone di Laura Pausini: “Ora e per sempre resterai, dentro ai miei occhi, incancellabile”.
Io e lui avremo sempre un rapporto molto stretto, anche se un giorno ognuno di noi avrà la sua vita, io per lui ci sarò sempre.
Noemi ha 18 anni, vive a Certaldo in provincia di Firenze e frequenta l’Istituto Alberghiero Enogastronomico nella vicina Castelfiorentino. Suo fratello Cosimo ha 11 anni e una malattia metabolica rara chiamata acidemia metilmalonica con omocistinuria. Si tratta di un difetto congenito del metabolismo della vitamina B12 con un’incidenza di circa 1 su 10mila nati, che, nel caso di Cosimo, colpisce soprattutto la vista. Insomma una rarità nella rarità, perché nell’associazione di pazienti e familiari CBLc ci sono pochissimi casi come il suo. “Da piccolo Cosimo non si rendeva conto della sua malattia”, dice Noemi, “ma adesso che sta diventando più grande comincia a capire le sue difficoltà. Le comprende bene, anzi, ma va avanti comunque con il sorriso, perché è un bambino tenero e molto generoso. Ricorda perfino ai miei genitori e a me, quando sono da sola con lui, quando deve prendere le medicine”.
Quando Cosimo è nato, Noemi aveva sette anni. Ancora una bambina anche lei, si è da subito data da fare per aiutare il suo fratellino. “Sono stata sempre una ragazza calma e responsabile”, si racconta. “I miei genitori lavorano entrambi come infermieri in ospedale, quindi non hanno mai avuto difficoltà a somministrargli le terapie, ma a volte sono impegnati fino a sera e allora sono io a occuparmi di mio fratello. Grazie al nostro aiuto, è riuscito a condurre una vita normale e a fare tutto ciò che doveva fare. A causa dei problemi di vista ha bisogno di qualcuno che lo aiuti nei compiti. A scuola va bene e i suoi maestri sono contenti di lui, ma comunque gli serve una mano e io e miei genitori siamo sempre con lui”. Sebbene mamma e papà siano sempre presenti e solleciti, Noemi è abituata a cercare di cavarsela da sola. “Nella mia vita c’è la scuola, la danza e Cosimo, che aiuto a fare i compiti quando i miei non ci sono”, spiega. La sua è una vita molto semplice: “Frequento la scuola dalle 8 alle 13 e qualche volta mi trattengo anche il pomeriggio. Poi studio e tre o quattro volte a settimana vado a danza”.
Secondo Noemi, “Cosimo è calmo, solare e rispettoso”. Ma è anche “un bambino che si fa amare, sa giocare, sa scherzare e gli piace stare in compagnia. Non ho proprio nulla da rimproverargli, è molto educato e saluta sempre tutti”. Dall’esterno la malattia non si vede. “La cosa peggiore è che è ipovedente, per il resto i sintomi possono essere tenuti sotto controllo con le medicine”, sottolinea Noemi. Da sempre i due fratelli sono molto uniti. “Quando è nato avevo sette anni, giocavamo sempre insieme e, ora che è cresciuto, è ancora più legato a me. Fa tutto quello che faccio io, mi dà sempre ragione, insomma io sono il suo modello e la sua guida. Anche chi non lo conosce, capisce al volo che imita tutti i miei modi di fare e a me questo piace, anche se qualche volta fa cose che non sono adatte alla sua età”. Noemi e Cosimo condividono anche tanti interessi, in particolare la passione per la danza latino americana. “Io ho cominciato quando avevo 4 anni anni e ora sono a livello agonistico, ma anche Cosimo è molto bravo e ha già la sua ballerina. La sera a casa nostra è come una discoteca, balliamo insieme tutto il tempo”.
Che per Cosimo ci fosse qualcosa che non andava, si è scoperto subito, fin dalla nascita. “È stato un mese in incubatrice”, ricorda sua sorella. “Si tratta di una malattia da cui non si guarisce, ma che può essere tenuta sotto controllo attraverso una terapia efficace. Fin da piccolo assumeva medicinali e, ora che è più grande, si è aggiunta anche una iniezione quotidiana. Nonostante mio fratello abbia avuto sempre bisogno di tante attenzioni da parte dei nostri genitori, io non sono gelosa né mi sono mai sentita arrabbiata con lui. Ho sempre desiderato un fratellino e ora che ce l’ho sono felice”. Ma Noemi ha anche tanti desideri per la sua vita personale: “Ho sempre desiderato viaggiare e, se da grande farò la cuoca, mi si potranno aprire tante possibilità lavorative in giro per il mondo. Dopo la scuola vorrei specializzarmi e andare all’estero. In particolare vorrei andare in Australia”.
Quanto al futuro di Cosimo: “Per lui immagino il futuro migliore che possa avere. Gli auguro di fidanzarsi e chissà che con l’avanzare del progresso tecnologico non si trovi anche un modo per permettergli di guidare l’automobile”. Ma su una cosa Noemi non ha dubbi: “Io e lui avremo sempre un rapporto molto stretto, anche se un giorno ognuno di noi avrà la sua vita, io per lui ci sarò sempre”.
Ai miei genitori non posso rimproverare nulla, sono stati bravissima con me, non mi sono mai sentita trascurata.
E comunque non ho mai preteso più attenzioni di quelle che mi davanoLudovica ha 20 anni e frequenta il secondo anno della facoltà di Medicina e chirurgia all’Ospedale Sant’Andrea dell’Università Sapienza di Roma, città dove è nata e cresciuta. Ha due sorelle, Matilde (17 anni) e Costanza (14). Matilde è affetta da acidemia metilmalonica con omocistinuria (cblC), un difetto congenito che comporta, tra le altre cose, ritardo della crescita e dello sviluppo, deficit cognitivo e letargia. Attualmente Matilde ha appena finito la seconda media, è rimasta tre anni in più alla materna e un anno in più alle elementari. Ludovica è una persona solare, che ama ridere e scherzare. È molto espansiva e non ha problemi a interagire con le altre persone. Pretende sempre il massimo da se stessa e non solo vuole fare sempre tante cose, ma le vuole fare bene, anche se, dopo un po’, diventa psicologicamente stressante. Oltre a studiare Medicina, lavora per il “Progetto Filippide”, un’associazione che promuove l’attività sportiva per le persone con autismo e sindromi rare. Nello specifico, Ludovica insegna nuoto sincronizzato a un gruppo di ragazzi con sindrome di Down e, due volte a settimana, si allena con la sua squadra.
“Insegnare nuoto sincronizzato mi dà grandi soddisfazioni, ma soprattutto grandissime emozioni”, spiega. “È un lavoro bellissimo, le persone che alleno sono meravigliose e dovrò ringraziarle per sempre per questa opportunità che mi hanno dato”. Al tempo stesso, Ludovica è convinta di dover imparare a rinunciare a qualcosa: “O meglio”, precisa, “devo imparare a scegliere le cose più importanti e a focalizzarmi su quelle per ottenere i risultati desiderati e soprattutto per stancarmi di meno! Ma per adesso mi va bene così, ho sempre avuto bisogno di conoscere il mio limite prima di cambiare strada: non riesco a tornare indietro senza sapere prima come finisce la strada, forse perché ho sempre paura di perdermi qualcosa e in generale ho sempre preferito i rimorsi ai rimpianti. E poi non mi piace l’idea di potermi chiedere un giorno come sarebbe andata se…” Continuando a descrivere se stessa, Ludovica si definisce “abbastanza impulsiva, ma anche presuntuosa e a tratti permalosa. Faccio fatica a pensare come sia starmi vicino”, prosegue, “perché, da un lato, sono accomodante, cerco di rendere felici le persone a cui voglio bene e mi preoccupo per loro, provando sempre a comprendere e a giustificare le loro azioni. Dall’altro lato, invece, penso che non sia facile starmi accanto, perché avendo un carattere forte, quando penso di avere ragione (praticamente sempre), lascio molto poco spazio all’altra persona, soprattutto nelle discussioni. È una cosa su cui devo sicuramente lavorare”.
Parlando di sé, il pensiero di Ludovica scivola su sua sorella Matilde. “Ci sono volte in cui faccio fatica a capire i punti di vista diversi dal mio per divergenze caratteriali o, comunque, per differenti esperienze di vita”, riflette. “Mia sorella e tutta la sua storia mi hanno insegnato e segnato tanto. È una cosa strana, perché in fondo, quando lei è nata, io ero molto piccola, avevo tre anni, di ricordi di quel periodo non ne ho molti e quello che so mi è stato raccontato dopo. Ha iniziato a stare male circa un mese dopo la sua nascita e, da quel momento, la vita dei miei genitori è stata catapultata dentro quell’ospedale. Mi ricordo che la notte facevano i turni per rimanere con Matilde. In particolare ho questo ricordo nitido di me e di mio padre che camminiamo, lui davanti e io dietro, passiamo davanti al parco giochi, poi entriamo dove c’è la cappella e, da lì, il corridoio bianco dell’Ospedale Bambino Gesù. Papà sta davanti a me con il borsone blu, che abbiamo ancora oggi, dentro ci sono le cose per passare la notte. Mentre camminiamo le infermiere ci fermano per dire a mio padre: ‘Signore! La bambina non può entrare’. Non ricordo però cosa succede dopo. Gli altri ricordi riguardano i palloncini all’elio che vendevano fuori dall’ospedale, lo sparo del cannone a mezzogiorno al Gianicolo e lo spettacolo delle marionette che era sempre lo stesso, ma mi piaceva molto, forse perché avevo poco altro da fare. La cosa più strana è che non ho memoria di mia madre in quel periodo, mi ricordo di mio papà, dei miei nonni, ma non di mia mamma. Non so se ho rimosso l’immagine del suo malessere, ma ho la sensazione di non averla mai vista stare male. Non che abbia mai visto mio padre, d’altra parte: nessuno dei due mi ha mai fatto pesare nulla. Però la situazione con mamma è diversa, è strana, ho la sensazione di non averla mai vista in quel periodo. Come se lei e Matilde fossero rinchiuse in quell’ospedale nella lotta tra la vita e la morte e nessuno potesse vederle, sentile o toccarle. Per fortuna quella lotta l’hanno vinta e, per quanto io creda nella medicina e nella scienza, non so se sarebbe finita così se mia madre fosse stata un’altra donna e mia sorella fosse stata un’altra bambina”.
Nel momento in cui i ricordi si focalizzano più da vicino su Matilde, Ludovica precisa: “Di quando era appena nata non ricordo quasi nulla, è stata male presto, è entrata quasi subito in ospedale. Purtroppo i ricordi di quando era piccola piccola non sono molto belli: mi viene in mente una volta che sono andata a guardarla mentre era nel lettino e stava nel pieno di una crisi epilettica, un’altra volta, invece, è caduta dal divano oppure ci strappava i capelli quando si arrabbiava. Purtroppo non mi sono rimasti ricordi gioiosi di quando era piccola. I ricordi belli che ho di lei risalgono a quando era più grande, la situazione più emozionante è stata forse al suo primo saggio di musica: suonava il tamburo con un coro sotto che cantava, era al centro del palco, sotto i riflettori e, appena è partita la musica, gli occhi le si sono illuminati, ha fatto il suo sorrisone e ha iniziato ad andare a ritmo (ha un grande senso del ritmo). Non sono riuscita a smettere di piangere neanche un secondo”.
“Solo quando sono arrivata al liceo, ho iniziato a capire quanto tutta quella storia e quello che ne è derivato mi abbiano formata”, prosegue Ludovica. “Sono una persona che si affeziona facilmente agli altri e tendo a entrare subito in confidenza. Mi fido quasi subito delle persone e vedo la parte migliore di ognuno. Quando hai avuto una persona cara in bilico tra la vita e la morte tendi a non voler perdere tempo e a voler prendere tutto il buono che c’è. Ho sempre avuto un grande bisogno di indipendenza e di non pesare sui miei genitori, perché ho sempre saputo che dovevano occuparsi di più delle mie sorelle. Ho sempre cercato di rendere i miei genitori fieri di me e penso, e spero, in parte, di esserci riuscita. Ho sempre avuto, però, anche la tendenza ad allontanarli perché non volevo dargli alcuna preoccupazione, sapendo che ne avevano già abbastanza, e quindi non volevo che mi vedessero stare male o essere fragile, ma tutto ciò mi ha portata a non confidarmi mai e ad avere una vita mia e solo mia. E purtroppo mi ha portata ad avere difficoltà a dimostrargli che gli voglio bene, non riesco a dirlo mai. Non riesco a dirlo mai neanche a mia sorella Costanza, con cui per una serie di motivi a me ancora sconosciuti ho sempre avuto un atteggiamento distaccato nonostante le voglia un bene immenso. Tutto di me, tutte le sfumature positive o negative che siano contengono qualcosa che Matilde mi ha donato”.
Se le chiedi che tipo è Matilde, Ludovica risponde in questo modo: “Matilde è la bambina più solare che conosca, si sveglia sempre con un sorriso a 32 denti. È un’entusiasta, le piace andare a scuola e adora i suoi maestri, di cui parla tutto il giorno. Ma la cosa che più le piace è sentire papà che canta e suona la chitarra. Ama sedersi vicino a lui e predisporre tutto: prende l’accordatore, il poggiapiedi e lo spartito e, finché papà non inizia a suonare, non lo lascia in pace. Prova un amore speciale sia per mamma che per papà. Con mamma vive in simbiosi, ogni volta che qualcuno le fa una domanda lei non risponde, ma ripete la domanda a mamma per far rispondere lei, forse anche perché non si sente sicura della risposta. Di papà è proprio innamorata, ride a tutte le battute, che lui ripete all’infinito, e a volte le ripete anche lei. È una ragazza dolce, buona, che si emoziona facilmente. Sa dimostrarti tutto il suo amore, una cosa che poche persone sanno fare. È la dimostrazione che, nonostante i limiti, si può essere felici e dare felicità agli altri. In fondo la linea tra abile è disabile è veramente labile e sta negli occhi di chi guarda. Ci sono molte cose che Matilde sa fare meglio di me e di tante altre persone “normodotate”; spesso ci si sofferma sul limite del disabile senza vedere tutti i suoi traguardi e questo porta ad avere pregiudizi. I limiti esistono e sono oggettivi, ma non penso di aver mai conosciuto una bambina tanto felice e con la stessa voglia di vivere, ti insegna che con poco puoi ottenere ciò di cui hai bisogno senza tutte le sovrastrutture che ci creiamo. William Arthur Ward scrisse: ‘L’insegnante mediocre dice. Il buon insegnante spiega. L’insegnante superiore dimostra. Il grande insegnate ispira’, Matilde è la mia grande insegnante”.
“Il nostro non si può definire un rapporto normale tra sorelle, perché è diverso, ho sempre avuto un’attenzione particolare nei suoi confronti, sono molto materna e molto attenta a quello che le accade” riflette ancora. “Matilde mi vuole bene, ma mai quanto a mamma e papà. Però è vero che non passo molto tempo a casa”. Solo raramente Ludovica si infastidisce con sua sorella: “Andiamo d’accordo. Io mi sento fortemente protettiva nei suoi confronti, la coccolo molto. Lei ogni tanto mi scansa per farmi i dispetti. Quando siamo in macchina e c’è la radio accesa, ci parla sopra tutto il tempo, appena uno la spegne per chiederle cosa ha detto si zittisce e non c’è modo di farle direi qualcosa”. Pensando, invece, ai genitori, Ludovica chiarisce: “Non ci trattano allo stesso modo, ed è giusto così. Sarebbe strano altrimenti. Si preoccupano di entrambe, anche se per Matilde sicuramente c’è un altro occhio, ma ai miei genitori non posso rimproverare nulla, sono stati bravissimi con me, non mi sono mai sentita trascurata. E comunque non ho mai preteso più attenzioni”. E infatti Ludovica non ha mai provato gelosia per sua sorella: “Matilde è il mio più grande punto di forza”, dice, “sono orgogliosa e fiera di lei, le voglio un bene infinito e non potrei provare altro sentimento. È giusto che l’attenzione dei miei si concentrasse su di lei e la cosa non mi ha mai dato fastidio”. Quanto agli amici, sottolinea: “I miei amici vedono sicuramente l’amore che provo per lei, perché ne parlo e ne vado molto fiera. Ho amiche che la conoscono e a cui Matilde è molto affezionata. Non tutti l’hanno incontrata di persona e non tutti mi chiedono di lei, forse perché hanno paura di toccare un tasto delicato o forse non ci pensano… non saprei sinceramente. Però posso dire che quando qualcuno conosce Matilde rimane incantato dalla sua dolcezza e dagli occhioni color ghiaccio che si ritrova”.
Infine, immaginando il futuro, Ludovica afferma: “Ci sono tante cose che mi piacerebbe fare come medico. Mi piacerebbe andare a lavorare in Paesi poveri dove c’è tanto bisogno sia di medici che di materiale sanitario. Allo stesso tempo vorrei avere una famiglia, dei figli, mi piacerebbe anche adottarne uno o due. Diciamo che mi piace farmi sorprendere dal presente e credo che, quando penso al futuro, quello che esce dalla mia testa è molto limitato rispetto alle infinite possibilità che ci sono. Insomma, ho sempre l’idea che ci possa essere qualcosa di più grande e bello a cui ancora non ho pensato. Quanto a Matilde, credo che rimarrà con i miei fino a quando saranno in grado di prendersene cura. Ormai sono anni che non presenta episodi gravi, è in una condizione di stabilità, si può dire che stia bene nonostante le manifestazioni della patologia. Mi immagino papà in pensione che passa le giornate con lei a cantare e a suonare. Immagino che a mamma verrà in mente qualcosa che la tenga impegnata, tempo fa stava pensando di aprire un negozio per vendere tutti i lavori di ceramica che fa Matilde, e sarebbe molto bello se potesse farlo perché realizza cose veramente molto carine. In ogni caso sarà amata alla follia, questo è poco ma sicuro”.
Il mio desiderio più profondo è che mia sorella abbia una sua casa. Casa, casa, casa: è la parola che mi ripeto in continuazione quando penso a lei.
Loredana è nata 58 anni fa a Milano, ma oggi abita in un piccolo paese, in provincia di Pavia, con la sua famiglia, composta da un marito e due figli: Stefano di 23 anni e Giada di 21. Lavora come project manager nel settore ricerca e sviluppo di una società di engineering e tutte le volte che può va a trovare sua sorella Luisella, che abita a 20 chilometri di distanza, insieme ai genitori. Luisella, che oggi ha 54 anni, ha la sindrome di Angelman, una malattia genetica rara che colpisce una persona ogni 10-20mila individui e si manifesta generalmente nei primi mesi di vita, caratterizzandosi soprattutto attraverso il ritardo dello sviluppo psicomotorio, la compromissione del linguaggio, l’iperattività motoria e un temperamento felice. Fin da bambina Loredana si sente molto coinvolta e sempre presente nella vita di Luisella.
“Siamo cresciute insieme”, racconta. “Io ho avuto sempre un senso di protezione nei suoi confronti”. Pur avendo solo quattro anni in più rispetto alla sorella minore, Loredana ricorda tutto della loro infanzia. “Non ci è voluto molto a comprendere che qualcosa non andava. Ricordo questo andare avanti e indietro dei miei genitori tra medici e ospedali, anche se la diagnosi l’abbiamo avuta solo quando Luisella aveva 41 anni, prima di questa malattia si sapeva poco e niente”. La sindrome è stata descritta per la prima volta nel 1965 dal pediatra inglese Harry Angelman, ma nella maggior parte dei casi ci sono voluti anni prima che arrivassero le diagnosi. “Non si capiva cosa avesse questa bambina, i miei si focalizzavano soprattutto sul fatto che stesse bene, e a un certo punto smisero perfino di cercare la causa dei suoi problemi. Poi, a un certo punto, quasi per caso, è arrivata la diagnosi. Per me è stato un punto di svolta, ma per mia madre è stato un momento difficile, perché per la prima volta veniva messo nero su bianco quel che era accaduto a Luisella, insomma non è stata una cosa semplice da accettare. Io, invece, ho capito subito l’importanza di dare un nome a questa “cosa”, perché scoprire quale fosse la malattia di Luisella apriva la possibilità di ottenere terapie più mirate. Dal momento che il problema c’era, conoscere il nome della malattia offriva, almeno teoricamente, la possibilità di aprire nuove porte”.
Dopo aver appreso che i problemi di Luisella dipendevano dalla sindrome di Angelman, Loredana ha subito cercato di comprendere le caratteristiche della malattia ed è voluta entrare in contatto con altre famiglie con lo stesso problema. “Ora finalmente possiamo capire tante cose che prima non sapevamo”, dice. “Abbiamo trovato conferma che Luisella comprendeva effettivamente alcune cose. Non avevamo mai saputo cosa capisse e cosa no e questa mancanza di comunicazione condizionava i rapporti con lei. Eravamo costretti a farci un’idea giorno per giorno, invece quando conosci la malattia sai dove puoi arrivare e dove no. I bambini con la sindrome di Angelman sono un diverso dall’altro, ma hanno delle caratteristiche comuni ed avere delle linee guida sicuramente ti aiuta”.
Da bambina Loredana era molto protettiva con sua sorella minore. “La vedevo più fragile”, ricorda. “Per me Luisella doveva sempre stare in prima fila, per me aveva una corsia preferenziale in ogni situazione. Se gli altri bambini facevano qualche brutta battuta, usando la disabilità per offendere un compagno, ci rimanevo malissimo. Ho vissuto il passaggio dalle classi differenziali all’inclusione scolastica fino all’avvento dei centri diurni”. All’epoca Loredana si sentiva partecipe delle scelte riguardanti Luisella, anche se i genitori non la consideravano abbastanza grande da poter capire. “I genitori non hanno la consapevolezza di quanto gli altri figli possano essere partecipi. Anche se non hanno la possibilità di decidere, non considerano le decisioni riguardanti i fratelli e le sorelle disabili come qualcosa che non li riguarda”. Allo stesso modo i bambini sono vicini ai propri genitori quando si prendono cura dei fratelli più fragili. “Sono stata sempre accanto a mia madre, anche durante i vari ricoveri di mia sorella: oltre al supporto materiale c’è stato sempre un coinvolgimento emotivo”, afferma Loredana. “È inevitabile sentirsi coinvolti: capisci subito che tua sorella non andrà nella tua stessa scuola e che, quando avrà la tua stessa età, non farà le stesse cose che fai tu. Poi arriva l’adolescenza e con essa il distacco dalla famiglia: i primi innamoramenti, le feste, le vacanze con gli amici. E allora rifletti e ti dici: io posso fare cose che mia sorella non potrà mai fare”.
Nello stesso tempo, fin da giovanissimi, i fratelli e le sorelle si assumono spesso responsabilità gravose per la loro età: “Portavo Luisella a giocare con me e, quando facevo le medie, davo il cambio in ospedale a mia madre durante i suoi ricoveri oppure dovevo affrettarmi a rientrare a casa per essere presente quando lei tornava a casa da scuola. Non era semplice organizzare una festa e perfino studiare poteva risultare complicato: Luisella richiedeva tante attenzione. Finché sei immersa in quella situazione neppure te ne rendi conto, solo quando sono diventata mamma a mia volta ho preso coscienza di quanto potessero essere impegnativi i carichi che avevo da bambina”.
Pensando al rapporto tra lei e Luisella, Loredana riflette: “Non ho mai provato sentimenti di rabbia nei confronti di mia sorella, quando c’era una difficoltà ho sempre cercato la soluzione. E poi Luisella è una persona bellissima: è solare, gioiosa, sempre sorridente, è pressoché impossibile arrabbiarsi con lei. Insomma, è una sorella fantastica, anche se è molto impegnativa e ne combina di tutti i colori. Inoltre ha un rapporto meraviglioso con i miei figli, che sono molto legati alla zia: per le persone disabili non esiste solo il rapporto con i fratelli e le sorelle, ma anche quello con i nipoti”.
C’è poi il capitolo del cosiddetto “dopo di noi”. “È un passaggio di testimone dai genitori ai fratelli”, sottolinea. “Una cosa molto difficile, visto che non riguarda un bambino, ma un adulto, con abitudini consolidate. E questo i fratelli, anche se non lo dicono, lo sanno da sempre”. Fin da ragazza Loredana rifletteva sul fatto che lei avrebbe avuto una casa e una famiglia tutte sue e Luisella no. “Per questo il mio desiderio più profondo è che mia sorella abbia una sua casa. Casa, casa, casa: è la parola che mi ripeto in continuazione quando penso a lei. Quindi la legge 112, nota come legge sul “dopo di noi”, è arrivata nella mia vita come un arcobaleno. È come se mi avessero dato la possibilità di realizzare un sogno: perché Luisella non dovrebbe poter restare a casa propria con la necessaria assistenza? Si è finalmente affacciata la speranza che possa avere un futuro sereno, vivendo con chi vuole, in una vera casa, come tutti quanti gli altri. Insomma, quando ho avuto modo di leggere il testo della legge 112 mi sono detta: è come se mi avessero letto nel pensiero”.
Un momento fondamentale per Loredana è stata la possibilità di incontrare altre mamme e papà di bambini con la sindrome di Angelman. “È stata un’emozione indimenticabile”, precisa: “una cosa che ha avuto un impatto fortissimo nella mia esperienza di sorella. C’erano anche genitori molto giovani, ricordo in particolare un padre poco più grande di mio figlio, con in braccio un bambino piccolo. Per me è stato come rivedere da capo un film, di cui conoscevo tutta la trama. Da questa esperienza è nata l’associazione “Il sorriso Angelman”, che ho costituito insieme a un gruppo di genitori con lo scopo primario di raccogliere fondi per la ricerca. L’idea che la ricerca possa aiutare i più piccoli è il sogno più grande per me”.
Dedico l’onorificenza di Alfiere della Repubblica a tutti i ragazzi che si occupano, in silenzio, dei fratelli con disabilità gravissime, senza vergognarsi mai e a prezzo di immensi sacrifici.
Damiano è mancato all’affetto dei suoi cari il 20 giugno 2020. La redazione di Rare Sibling e di Osservatorio Malattie Rare, insieme alla responsabile scientifica Laura Gentile, si unisce al cordoglio di Mattia e della sua famiglia. D’accordo con loro, manteniamo pubblicata la testimonianza di Mattia.
È stata una grande sorpresa per Sebastiano Mattia Indorato scoprire, lo scorso 22 aprile, di essere stato insignito Alfiere della Repubblica dal capo dello Stato, Sergio Mattarella. Sedici anni, di Sommatino (provincia di Caltanissetta), studente al terzo anno dell’istituto tecnico commerciale, Mattia, come tutti lo chiamano, ha ricevuto l’importante riconoscimento per «la dedizione con la quale si impegna ad affrontare le invalidanti difficoltà familiari di salute, e in particolare la cura del fratello, per il quale ha saputo, tra l’altro, ideare preziose modifiche al dispositivo medico che rende possibile il suo trasporto». Suo fratello Damiano ha dieci anni ed è affetto da una malattia rarissima, il cui gene è stato scoperto solo qualche settimana fa, arrecando un enorme sollievo a una famiglia già colpita dalla perdita della primogenita Maria Giulia, per via di quello stesso male a cui i medici non erano riusciti a dare un nome.
È stata un’emozione indescrivibile, subito ci siamo abbracciati. Poi ha telefonato il sindaco di Sommatino per complimentarsi con me e con i miei genitori.
“Ero al corrente della candidatura”, racconta Mattia, ripercorrendo il momento in cui ha appreso la bella notizia. “Ma non immaginavo di essere scelto. Mentre facevo lezione a distanza sono arrivati i miei genitori e hanno detto: ‘Non ci crederai, sei diventato Alfiere della Repubblica’. È stata un’emozione indescrivibile, subito ci siamo abbracciati. Poi ha telefonato il sindaco di Sommatino per complimentarsi con me e con i miei genitori. A quel punto la notizia era sul sito del Quirinale, diventando così di dominio pubblico, e così tutti sono venuti a saperlo. Spero che, alla fine dell’emergenza epidemiologica, possa svolgersi la cerimonia ufficiale a Roma”. Tra le motivazioni che hanno indotto il capo dello Stato a insignire Mattia di questa importante onorificenza, su segnalazione della Società italiana di pediatria, c’è “la grande disponibilità e generosità nell’aiutare la famiglia, acquisendo di volta in volta le competenze necessarie per assicurare continuità nelle cure, la giusta modulazione dei parametri nutrizionali, l’efficacia dei supporti respiratori, etc. L’attività di cura lo ha portato non di rado a rinunciare, silenziosamente e amorevolmente, alle più comuni attività ricreative proprie di un adolescente, mentre l’impegno scolastico è proseguito sempre con profitto”.
“Questo titolo mi è stato riconosciuto per ciò che faccio ogni giorno: per l’amore e la dedizione con cui mi prendo cura di mio fratello più piccolo senza ricevere nulla in cambio”, spiega il ragazzo. Col tempo, infatti, Mattia ha imparato ad assistere anche materialmente Damiano, acquisendo abilità fuori dal comune per la sua età. “Ho sempre voluto dare una mano, per alleggerire il lavoro dei miei genitori e per aiutare mio fratello”, prosegue. “Così ora so utilizzare tutti i macchinari che lo tengono in vita e gestire le sue necessità: dall’ossigenazione alla ventilazione, dall’aspirazione al nutrimento. Mio fratello dovrebbe vivere in un reparto di rianimazione, ma i miei genitori hanno sempre voluto tenerlo a casa, imparando a fare tutto ciò che era necessario. E io sono stato sempre con loro, vicino a Damiano. È il mio fratellino, lo proteggo in tutto e per tutto”.
Quando è nato stava bene. I primi sintomi sono comparsi all’età di un anno. Aveva iniziato a fare a primi passi e a pronunciare le prime parole. Già diceva ‘mamma’. Insomma era come tutti i bambini della sua età.
Damiano non è stato il primo bambino della famiglia a soffrire di quella malattia rara che gli rende tanto complicata la vita. Prima di lui c’è stata una sorellina, Maria Giulia, scomparsa a soli quattro anni di vita. “Adesso avrebbe 23 anni”, dice Mattia. “Quando ero piccolo le portavo i fiori del giardino al cimitero. Forse non capivo molto, ma quel gesto mi faceva stare bene. Poi, via via che crescevo, i miei genitori mi hanno raccontato di mia sorella: si è ammalata a 16 mesi e, gradualmente, la malattia se l’è portata via”. Anche per Damiano la malattia non è arrivata subito. “Quando è nato stava bene. I primi sintomi sono comparsi all’età di un anno. Aveva iniziato a fare a primi passi e a pronunciare le prime parole. Già diceva ‘mamma’. Insomma era come tutti i bambini della sua età. Poi è arrivata la malattia e, un po’ alla volta, ha smesso di piangere, di sorridere, di gattonare e di parlare: tutti i risultati raggiunti fino a quel momento erano scomparsi. Anch’io cominciavo a vedere qualche cambiamento, per esempio notavo che, a volte, mentre guardava la tv, restava imbambolato. Erano crisi epilettiche, ma io non lo sapevo”.
E alla fine ho ideato a un carrellino con ripiano in legno che, agganciato al passeggino, permettesse il trasporto dei vari macchinari. La mia idea è stata poi realizzata appositamente per mio fratello da una società di ortopedia, ma si tratta di una soluzione utilizzabile anche per altre persone.
Pur avendo solo sei anni in più di suo fratello, già da piccolo Mattia aiutava i genitori. O almeno ci provava. “Vedevo mamma che gli dava l’acqua addensata con un apposito biberon e volevo farlo anch’io. Poi, con gli anni, i miei hanno acconsentito a sottoporre Damiano alle varie operazioni che gli permettevano di vivere, come la tracheotomia e la gastrostomia, e il vecchio biberon è stato dismesso. Sono arrivati i macchinari, l’ultimo dei quali è stato il ventilatore, ed era diventato quasi impossibile uscire. Ho pensato molto a come poter aiutare la mia famiglia e mio fratello”, precisa Mattia. “E alla fine ho ideato a un carrellino con ripiano in legno che, agganciato al passeggino, permettesse il trasporto dei vari macchinari. La mia idea è stata poi realizzata appositamente per mio fratello da una società di ortopedia, ma si tratta di una soluzione utilizzabile anche per altre persone. La situazione è migliorata di gran lunga per noi e ora possiamo portare Damiano al mare, in piscina, in montagna. Almeno quando non sta attraversando un momento difficile e quando non fa né troppo caldo né troppo freddo. Insomma”, tira le somme, “abbiamo cercato di rendere normale ciò che non è normale”.
Nelle ultime settimane, poi, Mattia e la sua famiglia hanno ricevuto un’altra buona notizia. È stato finalmente scoperto il gene responsabile della malattia di Damiano. “Abbiamo il nome del gene”, chiarisce Mattia: “si chiama NRROS. La ricerca, condotta su mio fratello, è stata realizzata dalla professoressa Maria Piccione del Centro Malattie rare dell’Ospedale Cervello di Palermo, insieme all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, in particolare grazie ai professori Bruno Dallapiccola e Marco Tartaglia. Dopo 23 anni di ricerche incessanti, per la mia famiglia questa scoperta significa molto. È una cosa molto importante per le generazioni future e, per quanto mi riguarda più da vicino, anche per la possibilità di una diagnosi prenatale”.
Loro possono vergognarsi di un taglio di capelli mal riuscito o di uno dei loro genitori, ma io non mi vergogno mai di mio fratello, perché mio fratello è la mia vita. Credo di essere maturato più velocemente degli altri.
Se gli chiedi cosa voglia fare da grande, Mattia non ha esitazioni: “Vorrei aiutare gli altri, specie quelli che vivono la mia stessa situazione. È una decisione che sto elaborando con l’aiuto dei miei genitori: penso proprio che studierò per diventare medico”. E se gli chiedi in che modo si senta diverso dai suoi coetanei, risponde sicuro: “Loro possono vergognarsi di un taglio di capelli mal riuscito o di uno dei loro genitori, ma io non mi vergogno mai di mio fratello, perché mio fratello è la mia vita. Credo di essere maturato più velocemente degli altri”, va avanti. “Ho capito l’importanza delle cose piccole, come andare a mangiare un gelato con i miei genitori e mio fratello, ogni volta che è possibile. Per la storia della mia famiglia, poter stare tutti insieme serenamente è una cosa molto importante. Insomma, ho imparato a dare valore anche alle cose che per altri non hanno valore”.
Se invece pensa al futuro, la voce di Mattia si incrina leggermente: “La salute di mio fratello peggiora di giorno in giorno. Pur con l’aiuto di tutte le tecnologie possibili, non ha molto tempo di fronte a sé. Eppure”, sottolinea con maggiore ottimismo, “Damiano è il bambino più longevo tra quanti soffrono della sua stessa malattia e questo costituisce un grande traguardo per i miei genitori”. In conclusione, Mattia ci tiene a sottolineare: “Ringrazio il dottor Davide Vecchio dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, senza il quale non sarebbe stato possibile tutto questo, e il professore Alberto Villani, presidente della società italiana di pediatria per aver proposto la mia candidatura. Questa onorificenza la voglio dedicare a tutti i ragazzi che si occupano, in silenzio, dei fratelli con disabilità gravissime, senza vergognarsi mai e a prezzo di immensi sacrifici dettati dal solo amore”.
Anna Maria ha 63 e vive a Lugo di Ravenna. È andata da poco in pensione, dopo una carriera come impiegata presso un’azienda municipalizzata. Suo fratello Paolo, invece, di anni ne ha 57 e abita a La Spezia. Paolo è affetto dalla distrofia muscolare di Duchenne, la più frequente ma anche la più grave tra le distrofie muscolari. Nello specifico, si tratta di una malattia neuromuscolare che si manifesta nella prima infanzia attraverso problemi di deambulazione destinati, col tempo, a progredire fino alla perdita dell’autonomia. Colpisce circa 1 su 3.500 maschi, mentre le donne possono essere portatrici sane della malattia, ovvero avere una probabilità su due di trasmetterla a eventuali figli. Un elemento quest’ultimo che ha avuto un peso non irrilevante nella storia di Anna Maria e Paolo.
Sono una sibling che ha sposato un altro sibling. Oggi io e mio marito viviamo con suo fratello, mentre Paolo ha un appartamento attiguo a quello di un’altra nostra sorella
“La mia è una storia particolare”, esordisce Anna Maria. “Sono una sibling che ha sposato un altro sibling. Oggi io e mio marito viviamo con suo fratello, mentre Paolo ha un appartamento attiguo a quello di un’altra nostra sorella. Il fratello di mio marito è cieco e ha un ritardo mentale grave dovuto a un trauma da parto». Ma la particolarità della storia di Anna Maria trae origine anche dalla specificità della patologia, che interessa le donne esclusivamente come portatrici sane. “Non c’è solo il discorso di dover accettare la malattia di mio fratello”, precisa, “ma anche il rischio di poter trasmettere la distrofia ai tuoi figli. E questa consapevolezza per una donna rappresenta il primo passaggio di un lungo percorso che può anche portare alla decisione di rinunciare ai figli. Io in particolare di figli ne ho avuti due: mi sono affidata al fatto che mio fratello fosse l’unico con la distrofia muscolare di Duchenne all’interno della nostra famiglia. Il primo figlio l’ho avuto a 19 anni, il secondo molto più in là, quando ero più cosciente e, per questo, più timorosa. Fortunatamente a quei tempi erano già cominciati a comparire i primi studi sulle mutazioni genetiche ex novo, come poi è effettivamente risultato nel caso di mio fratello. Paolo ha una mutazione genetica rara, ci sono pochissime persone al mondo come lui”.
Dopo la separazione dei miei genitori, sono cominciate le difficoltà. Mia madre doveva assistere mio fratello, e così abbiamo trascorso alcuni periodi in collegio
“I sibling hanno tanti scogli da superare” prosegue Anna Maria. “Spesso le famiglie si sfasciano e i padri spariscono. Ed è quello che è accaduto a noi, perché mio padre voleva chiudere mio fratello in un istituto, ma mia madre respingeva l’idea nella maniera più assoluta. Come molti uomini, specie della sua generazione, mio padre era convinto che lui un figlio malato non poteva metterlo al mondo, quindi a un certo punto aveva posto in discussione la stessa fedeltà di mia madre. Dopo la separazione dei miei genitori, sono cominciate le difficoltà. Mia madre doveva assistere mio fratello, specie quando era ricoverato all’ospedale pediatrico Gaslini di Genova, così abbiamo trascorso alcuni periodi in collegio, perché lei non poteva prendersi cura di noi. Cresci in fretta quando hai un fratello disabile. Provi un senso di abbandono che non ti lascia mai, perché le attenzioni dei tuoi genitori sembrano sempre rivolte altrove. Eravamo cinque figli, di cui i primi due molto più grandi. Erano già sulla ventina quando noi eravamo ancora bambini e facevano un po’ vita a sé. Io, invece, ero la più grande del gruppo dei piccoli. Tra e mio fratello Paolo corrono sei anni e, in mezzo a noi, c’è un’altra sorella”.
Dicevamo che mio fratello non avrebbe superato i 20 anni. E allora tu cerchi di non farti coinvolgere più di tanto perché sai che quel fratello dovrai lasciarlo presto
“È stata mia madre la prima ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava quando mio fratello aveva due mesi. Ha avuto i primi sospetti il giorno del battesimo, perché non si muoveva nella culla. Il primo impatto è stato cadere in uno stato d’ansia: percepivo la preoccupazione dei miei genitori e mi accorgevo perfettamente che qualcosa era cambiato. Poi è cominciata l’affannosa ricerca di una diagnosi. Mamma e papà non c’erano più e noi piccoli eravamo affidati alle cure di una sorella più grande. Quando è arrivata la risposta dei medici è stato molto pesante: dicevamo che mio fratello non avrebbe superato i 20 anni. E così è cominciato una specie di rapporto a termine, dove tu cerchi di non farti coinvolgere più di tanto perché sai che quel fratello dovrai lasciarlo presto”.
Paolo ha una grande forza psicologica ed è stato abituato da mia madre ad essere il più autonomo possibile. Lei lo allevato esattamente come noi, è stata sempre una donna all’avanguardia.
Da qui all’inizio di un processo di colpevolizzazione il passo è breve. “Era come se mio fratello avesse la colpa di tutto: perché se lui non fosse nato, io avrei potuto fare figli senza paura”, dice Anna Maria. “Come tutte le ragazze della mia età, da giovane immaginavo la mia vita futura con un marito e dei figli, ma poi pensavo a mio fratello e mi chiedevo chi mai avrebbe potuto sposarmi. Mi sentivo menomata, e la presenza di mio fratello acuiva la mia consapevolezza”. Anna Maria non ha però vissuto i suoi timori in solitudine. Quando Paolo è nato i fratelli maggiori erano già sulla ventina, ma gli ultimi tre erano molto uniti. “Mia sorella minore è molto legata a Paolo e oggi abita vicino a lui. Io invece ho assunto un ruolo di sostegno nella famiglia di mio marito, che è anche lui un sibling. Ciò nonostante resto sempre vicina ai miei fratelli minori. Ho una grande stima di Paolo che, pur non essendo autosufficiente e avendo bisogno del respiratore, ha comunque scelto di vivere da solo. Ha una grande forza psicologica ed è stato abituato da mia madre ad essere il più autonomo possibile. Lei lo allevato esattamente come noi, è stata sempre una donna all’avanguardia. E oggi mio fratello è una persona moralmente e psicologicamente forte, in grado di autodeterminarsi in tutto e per tutto: è iscritto alla facoltà di Psicologia, non ha un amministratore di sostegno e vive da solo con un’assistenza h24. Oltre a un assistente personale inviato dal Servizi sociali del Comune ad aiutarlo ci sono amici e volontari”.
I genitori dovrebbero lasciare più spazio agli altri figli. Se non hai la possibilità di dire la tua, come potrai un giorno aiutare tuo fratello?
“Vorrei dire che il nostro destino di sibling è quello di diventare caregiver dei nostri fratelli e sorelle”, conclude Anna Maria. “Ci piaccia o meno, è comunque un punto di arrivo. È una cosa a cui spesso non si pensa, per questo molti arrivano impreparati. Quando non ci sono più i genitori, si ritrovano una persona sconosciuta da accudire perché non conoscono realmente i loro fratelli e sorelle né le responsabilità che prendersi cura di loro comporta. Mia madre era una donna veramente lungimirante. Dopo il primo scombussolamento, ha capito che andava costruita una relazione. Io ho sempre messo bocca sulle questioni che riguardavano Paolo. Mio marito, invece, non veniva mai responsabilizzato. I suoi non glielo permettevano. I genitori dovrebbero lasciare più spazio agli altri figli. Se non hai la possibilità di dire la tua, come potrai un giorno aiutare tuo fratello?”.
Alessia ha 32 anni e vive a Napoli con suo marito. Lavora come terapista della riabilitazione psichiatrica presso la Asl. Fino a due anni fa, invece, abitava a Campobasso, dove è nata, insieme a sua madre e suo fratello Emanuele. Emanuele, come prima suo padre, ha la malattia di Huntington, una patologia rara, ereditaria e neurodegenerativa, che interessa soprattutto il sistema nervoso. Nota in passato come Corea di Huntington, la malattia prende il nome dal medico americano che l’ha descritta per la prima volta negli anni Settanta dell’Ottocento. Tra i sintomi più evidenti, vi è la presenza di movimenti involontari simili a una danza incontrollata, la perdita delle capacità cognitive e l’insorgenza di disturbi psichiatrici. Si stima che, in Italia, la malattia interessi tra le 6 e le 7mila persone, mentre i soggetti attualmente a rischio di ammalarsi sarebbero tra i 30 e i 40mila. I figli hanno il 50% di possibilità di ereditare la mutazione genetica dai propri genitori e dal 1994 esiste un test predittivo in grado di confermare o escludere la presenza della malattia, anche prima della sua manifestazione. Alessia, che ha perso suo padre due anni fa, oggi è vice presidente di NOI Huntington, la rete italiana dei giovani sostenuta dalla Fondazione Lirh-Lega Italiana Ricerca Huntington.
“Le prime avvisaglie si sono manifestate verso i 19 anni: diceva di sentirsi deconcentrato a scuola e di non riuscire a impegnarsi abbastanza quando faceva i compiti, ma noi sembrava un capriccio”
“All’età di 27 anni mio fratello Emanuele ha già la malattia di Huntington”, spiega Alessia. “Vive a Campobasso con mia madre, mio padre è morto 4 anni fa per la stessa malattia. Le prime avvisaglie si sono manifestate verso i 19 anni: diceva di sentirsi deconcentrato a scuola e di non riuscire a impegnarsi abbastanza quando faceva i compiti, ma noi non gli davamo peso. Ci sembrava un capriccio. Poi sono comparsi i sintomi motori, soprattutto tic al volto, movimenti incontrollati delle mani, difficoltà di equilibrio. E dopo un po’ ha deciso di fare il test”. Alessia ha scoperto l’esistenza della malattia di Huntington per caso, ma forse sarebbe più corretto dire che si è resa conto da sola e casualmente che gli strani comportamenti di suo padre avevano una causa e che questa causa si chiamava, appunto, Huntington. “Ero ancora una bambina”, racconta. “Mia madre non mi aveva detto nulla. Mi chiedevo perché mio padre avesse questi insoliti tic e un’andatura barcollante. La gente mi domandava se fosse ubriaco o se facesse uso di sostanze stupefacenti, fino a che un giorno ho trovato a casa una brochure informativa. E allora ho fatto due più due e ho capito tutto. Lo stigma però esiste ancora. Per questo con la nostra associazione stiamo chiedendo a tanti di togliersi la maschera e uscire allo scoperto”.
“Ho scelto di fare il test perché non riuscivo più a vivere nell’incertezza. E, quando è risultato negativo, ho provato un senso di colpa fortissimo: mio fratello era condannato e io mi ero salvata”
All’epoca in cui Alessia scoprì il nome della malattia di suo padre, sua madre sapeva già che si trattava di una patologia ereditaria. “Lo aveva scoperto dopo aver avuto due figli, me e mio fratello. L’Huntington rimane sempre una questione nascosta, la gente preferisce non dire nulla. Emanuele ha cominciato a manifestare i primi sintomi molto presto: non aveva neppure 20 anni rispetto a un’insorgenza media tra i 30 e i 40. Io invece sono stata fortunata: non ho ereditato la malattia. Ma decidere di fare il test non è stato semplice: si tratta di una scelta difficile, che non puoi fare da sola. Hai bisogno di un counselor o, comunque, di qualcuno che ti aiuti. Io ho scelto di farlo perché non riuscivo più a vivere nell’incertezza. E, quando è risultato negativo, ho provato un senso di colpa fortissimo. È una sensazione davvero strana: mi ero liberata dal dubbio, ma continuavo a soffrire perché mio fratello era condannato e io mi ero salvata. Per fortuna ci sono il suo coraggio e il suo sorriso a rendere me e mia madre felici e piene di speranza”.
“Emanuele è un ragazzo solare, intraprendente, tenace. Ha tantissimi obiettivi e, nonostante la malattia, non si dà mai per vinto. È molto spiritoso e fa tante battute, è un davvero un portento”
Se chiedi ad Alessia come descriverebbe suo fratello Emanuele, la sua voce si anima: “È un ragazzo solare, intraprendente, tenace. Ha tantissimi obiettivi e, nonostante la malattia, non si dà mai per vinto”, dice. “È molto spiritoso e fa tante battute, è davvero un portento, E con la sua forza ci infonde tanta fiducia, perché il futuro della ricerca è promettente”. Attualmente Emanuele non ha un lavoro, le sue condizioni di salute non glielo permetterebbero. “Non è completamente autonomo”, precisa Alessia. “Ciò nonostante ha tante passioni, soprattutto la lettura e i motori. In particolare segue la MotoGP e la Formula 1. Conosce ogni tipo di macchina”. Le vicende della sua famiglia hanno avuto un effetto sulle scelte personali, soprattutto per quanto riguarda gli studi. “Ho deciso di studiare Tecniche della riabilitazione psichiatrica perché ho sempre desiderato cambiare qualcosa intorno a me”, sottolinea. “Quando vedevo mio padre stare male, avevo l’istinto di volerlo salvare. La mia esperienza personale mi ha aiutato a percepire il lavoro in maniera più accogliente. Intendo dire che la mia storia familiare è stata importante per affrontare meglio il mio lavoro: mi posso reputare una persona serena, priva di stigmi e pregiudizi, con una mentalità realmente aperta”.
“Quando sono arrivati i risultati del test, mio fratello ha detto che lo sapeva già, ma voleva avere una conferma. Ha affrontato il responso in modo positivo, rimboccandosi le maniche”
Pensando al principio della malattia di suo fratello, Alessia chiarisce: “È cominciato tutto con una disattenzione a scuola, ma i sintomi classici dell’Huntington non si sono manifestati subito. Non c’erano neppure i movimenti coreici tipici della patologia. Non a caso, fino ad alcuni anni fa la malattia veniva chiamata Corea di Huntington. E la Corea nell’antica Grecia indicava, appunto, una danza corale. Ma quando Emanuele ha manifestato le prime difficoltà a scuola, noi non pensavamo alla malattia e le percepivamo piuttosto come la scusa di chi non ha voglia di studiare. È stato solo quando è comparsa la sintomatologia più classica, che ci siamo rivolti al professor Ferdinando Squitieri e, qualche tempo dopo, 5 anni fa, mio fratello ha deciso di fare il test. È risultato positivo, i sintomi erano ormai evidenti: Emanuele presentava tic facciali, movimenti incontrollati delle mani e andatura barcollante. Ero certa della risposta anche prima che il test confermasse la presenza della malattia: l’occhio diventa esperto e, in cuor mio, sapevo che il risultato sarebbe stato positivo, come infatti è stato. Quando sono arrivati i risultati, mio fratello ha detto che conosceva già la risposta, ma voleva avere una conferma. Ha affrontato il responso in modo positivo, rimboccandosi le maniche e seguendo per filo e per segno l’attività riabilitativa prescritta. E, soprattutto, non ha mai avuto paura a dire apertamente di avere questa patologia rara”.
“Avrei dovuto incoraggiarlo e invece era lui che incoraggiava me. Stavo male anche per me stessa, perché lui mi faceva da specchio: rivedevo i suoi stessi sintomi dentro di me”
“Il momento più difficile è stato proprio quando abbiamo ricevuto la conferma dal test”, prosegue Alessia. “Era il segno tangibile che la catena non si era spezzata. Io mi sentivo in colpa, quasi in debito nei confronti di mio fratello, perché lui era stato colpito e io risparmiata. Avrei dovuto incoraggiarlo e invece era lui che incoraggiava me. Stavo male anche per me stessa, perché lui mi faceva da specchio: rivedevo i suoi stessi sintomi dentro di me, avvertivo spasmi involontari e, se mi sentivo nervosa, lo attribuivo ai sintomi comportamentali della malattia. Allora mio fratello mi diceva: fai il test e ti sentirai più tranquilla. Così ho deciso di farlo, ma ho preferito non dirlo a nessuno: lo sapevano soltanto mia madre e mia zia. E poi quando il risultato ha dato esito negativo, ho provato un grandissimo senso di colpa. Puoi pensare quello che vuoi, ma alla fine per me solo una cosa era certa: lui sì e io no”.
“Quando la malattia comprometterà le funzioni cognitive e, finanche, l’autonomia di mio fratello, l’amore resterà sempre. Noi due non ci separeremo mai”
L’impegno di Alessia a favore delle persone colpite dalla malattia si esplica anche nel suo ruolo di vice presidente di NOI Huntington, la rete italiana dei giovani sostenuta dalla Fondazione Lirh-Lega Italiana Ricerca Huntington. “Sento l’esigenza di mettere in rete ragazzi che convivono, in prima persona o attraverso i loro familiari, con la malattia di Huntington”, spiega. “È una cosa che mi viene naturale e in cui credo molto. Fin dall’inizio avevo il desiderio di condividere la mia esperienza con altre persone. Poi l’idea è diventata un progetto e il progetto si è trasformato, infine, in una vera e propria associazione: nella fattispecie un’associazione formata da una quarantina di iscritti, che hanno deciso di fare rete. E la cosa bella è che anche mio fratello partecipa agli eventi che organizziamo”. Tirando le somme della sua esperienza, Alessia commenta: “Grazie alla malattia di mio fratello sono diventata una persona più consapevole. All’inizio era come vivere in un vortice: mio fratello era all’inizio del percorso e mio padre alla fine, non abbiamo avuto un momento di tregua. La malattia di mio padre e, successivamente, quella di mio fratello hanno contribuito a unirci come famiglia, anche se stavano succedendo troppe cose tutte insieme. Così, nonostante questo magone che mi porterò dietro tutta la vita, l’energia e la positività di mio fratello mi danno una carica fortissima. E poi il futuro è molto incoraggiante dal punto di vista della ricerca scientifica che, in questo momento, sta facendo passi da gigante. È in atto una sperimentazione molto promettente, che presto verrà introdotta anche in Italia. Penso che la vita di Emanuele sarà migliore di quella di mio padre e ripongo molta speranza nelle nuove prospettive di cura. Così anche quando la malattia comprometterà le funzioni cognitive e, finanche, l’autonomia di mio fratello, l’amore resterà sempre. Noi due non ci separeremo mai”.
David Alejandro ha 25 anni, vive a Luino (provincia di Varese), in un appartamento sotto quello dei suoi genitori e lavora in Svizzera, all’interno di un’azienda farmaceutica, a 25 minuti di auto dal suo paese. In famiglia sono tre figli, due dei quali adottivi. Solo Federico, che oggi ha 30 anni e vive in Australia, è figlio biologico. David Alejandro, invece, è nato in Colombia ed è arrivato in Italia all’età di otto anni, mentre Daniela viene dall’India, dove ha vissuto per qualche anno in un orfanotrofio. Daniela ha 31 anni ed è autistica.
“In alcuni momenti Daniela è più tranquilla, in altri più nervosa. Ma nel tempo ha fatto tanti piccoli passi avanti, acquisendo sempre maggiore autonomia. Ed è questa la cosa più importante”.
“Daniela è una ragazza serena e solare”, racconta David Alejandro. “Anche se non è sempre uguale: in alcuni momenti è più tranquilla, in altri più nervosa. Ma nel tempo ha fatto tanti piccoli passi avanti, acquisendo sempre maggiore autonomia, ed è questa la cosa più importante. Oggi è in grado di stare a una festa senza problemi, cosa impensabile fino a qualche anno fa. Negli ultimi tempi le cose sono cambiate in meglio, insomma”. Quando David Alejandro è giunto in Italia, Daniela aveva 14 anni. “Ero l’ultimo arrivato in famiglia”, ricorda. “Lei doveva capire chi ero, i bambini l’hanno sempre intimorita e la intimoriscono ancora. Ma negli ultimi tempi il nostro rapporto si è molto consolidato. Soprattutto da quando l’altro fratello è andato in Australia, lei ha cominciato a vedermi come una figura di riferimento”.
“A volte l’abbracciavo troppo forte e lei si innervosiva. Non ci sono mai rimasto male, però. C’è voluto del tempo perché potesse fidarsi di me, ma con gli anni abbiamo fatto molti passi avanti”.
Fin dal primo momento, tuttavia, David Alejandro si è sentito tutt’altro che intimidito dalla presenza di Daniela. “Non ero affatto spaventato, ero soltanto curioso”, sottolinea. “L’ho presa fin da subito a cuore e fin da subito ho cercato di instaurare un buon rapporto con lei. La mia curiosità”, precisa, “dipendeva dal fatto che ho subito avvertito che si trattava di una ragazza speciale. Fin da quando erano arrivati in Colombia, dove avevano trascorso un mese, i miei mi avevano parlato di lei. Daniela era rimasta con mia nonna e io avevo pensato di comprarle una catenina o un braccialetto, non ricordo bene, anche se mia madre mi aveva avvertito che non li avrebbe indossati. Fin da allora, insomma, era nata una curiosità che è rimasta intatta quando poi ho avuto modo di conoscerla di persona. A volte probabilmente esageravo”, prosegue David Alejandro sull’onda dei ricordi. “Ero un bambino molto vivace e lei si spaventava. Se l’abbracciavo troppo forte, lei si innervosiva, per esempio. Non ci sono mai rimasto male, però, perché comprendevo bene la sua situazione. Insomma, c’è voluto del tempo perché potesse fidarsi di me, ma con gli anni abbiamo fatto molti passi avanti”.
“Con me si comporta in maniera più adulta, direi. Se le dico di versarsi l’acqua da sola, lo fa senza problemi. Ma se al mio posto c’è mio padre, diventa davvero una bambina viziata”.
“Mia sorella ha avuto sempre un rapporto speciale con i nostri genitori, specie con mio padre con cui vive davvero in simbiosi”, dice ancora David Alejandro. “Con me si comporta in maniera diversa, più adulta, direi. Per esempio, se le dico di versarsi l’acqua da sola, lo fa senza problemi. Ma se al mio posto c’è mio padre, diventa davvero una bambina viziata. Quanto a me”, aggiunge, “non mi capita spesso di poter dare una mano a casa. È il lavoro che me lo impedisce. Mia madre lavora nella ditta edile di famiglia insieme a mio padre, così Daniela frequenta ogni giorno un centro diurno dalle 9.00 alle 16.00. A volte, quando i turni di lavoro me lo consentono, l’aiuto a prepararsi per uscire o le do la merenda, ma non è la norma. È soprattutto mia madre a occuparsi di lei, incastrando come può i vari impegni. Quando ero più piccolo, però, a volte succedeva che mi occupassi di lei quando i miei uscivano nel weekend”.
“Daniela parla poco, ma capisce tutto. Ultimamente riesce a comunicare
di più attraverso le parole, cosa che prima non faceva, neppure quando sentiva dolore”“Non mi sono mai sentito trascurato dai miei genitori, credo che abbiano dato le stesse attenzioni a ciascuno dei figli. Federico e Daniela hanno quasi la stessa età e, fino a che lui non è andato a vivere dall’altra parte del mondo, hanno vissuto quasi come due gemelli. Credo che Daniela senta molto la sua mancanza, ma non riesce a dirlo: quando lo chiamiamo su Skype, all’inizio non lo guarda neppure e poi, a un certo punto, vuole andare via. Si capisce che ha il magone, anche se lei non lo manifesta direttamente. Comunica le sue emozioni in maniera indiretta”. Poi pensandoci meglio, David Alejandro aggiunge: “Daniela parla poco, ma in realtà capisce tutto. Si rende conto quando parliamo di lei, specie se stiamo raccontando di qualcosa che ha combinato. Ultimamente ha cominciato a comunicare di più attraverso le parole, cosa che prima non faceva, neppure quando sentiva dolore. Ora, invece, riesce a esprimersi meglio e riesce a farci capire le cose di cui ha bisogno”.
“Alla mia ragazza ho detto: se non accetti Daniela, non puoi stare con me. E per fortuna sembra che le cose stiano andando bene. Mia sorella la sta ancora studiando, ma si capisce già che le piace”.
Quanto al futuro, David Alejandro spera in una famiglia tutta sua, dove sua sorella maggiore possa comunque trovare un posto anche lei. “Daniela per me è molto importante, mi immagino un futuro con moglie e figli che, spero, possano considerarla parte integrante della famiglia. Al momento ho una relazione sentimentale iniziata da poco, ma ho voluto chiarire le cose fin da subito. Alla mia ragazza ho detto: se non accetti Daniela, non puoi stare con me. E per fortuna sembra che le cose stiano andando bene, anche se si conoscono poco. Mia sorella la sta ancora studiando, ma si capisce già che le piace. E anche la mia ragazza riesce a rapportarsi con lei in maniera corretta. Con la mia precedente ragazza, invece, Daniela faceva la gelosa”. Ma cosa significa esattamente comportarsi nel modo giusto? David Alejandro lo spiega così: “Devi farle capire che la vedi come una persona che ha bisogno di aiuto e rispettarla. Voglio dire che una persona con una disabilità ha bisogno di maggiore rispetto degli altri. Il fatto che non parli o non si muova non vuol certo dire che con lei puoi comportarti come ti pare e piace. Spetta a te cercare sempre di fare stare bene quella persona”.
“Quando Daniela è felice oppure manifesta un’emozione, lo fa in maniera più potente.
Allo stesso modo, quando ha una crisi, è egualmente amplificata”.
“Daniela mi ha dato tanto nella vita. Sono cresciuto con l’idea che è così e basta e, oggi, quando vedo davanti a me una persona in difficoltà, mi viene spontaneo dedicarle maggiori attenzioni. So che esistono persone speciali, cioè persone che, nonostante la disabilità e i problemi che ne conseguono, hanno dentro di sé comunque qualcosa di bello. Qualcosa che non si vede subito, magari, ma che riescono comunque a trasmetterti. Quando Daniela è felice oppure manifesta un’emozione, lo fa in maniera più potente. Allo stesso modo, quando ha una crisi, è egualmente amplificata, e tu ti rendi conto di quanto possa stare male. A volte, poi, non ti aspetti determinate cose. Per esempio, quando vediamo che fa un passo avanti, anche se si tratta di una cosa elementare ci riempie di gioia. Perché comprendiamo quanto possa essere importante per lei e per noi che le siamo accanto”.
Intervista a cura di Antonella Patete.
Maria ha quasi 51 anni e vive a Roma, nel quadrante Nord Ovest della città. Fino a qualche tempo fa lavorava nel settore amministrativo di un’azienda, che poi è fallita, e attualmente sta cercando una nuova occupazione. Abita al piano di sopra dell’appartamento che sua sorella Francesca, di sei anni più giovane, divide con i suoi genitori. Francesca, che si muove in sedia a ruote, ha l’atassia di Friedreich, una malattia neurodegenerativa genetica che colpisce circa una persona su 50mila, interessa soprattutto gli arti e comporta difficoltà di coordinazione nei movimenti, perdita di sensibilità e debolezza muscolare.
“Che ci fosse qualcosa che non andava ce ne siamo accorti un’estate di molti anni fa, quando aveva 18 anni. Eravamo in Sardegna, lei stava facendo il bagno e non riusciva a uscire dall’acqua”.
“Fino a 26 anni Francesca guidava perfino il motorino, anche se era già instabile nel passo e fino a 35 camminava con l’aiuto del deambulatore”, racconta Maria. “Che ci fosse qualcosa che non andava ce ne siamo accorti chiaramente un’estate di molti anni fa, quando aveva 18 anni. Eravamo in Sardegna, lei stava facendo il bagno e continuava a chiamarmi perché non riusciva a uscire dall’acqua. All’inizio dell’adolescenza, per qualche anno, aveva portato il busto di notte perché, secondo l’ortopedico, aveva un problema con le ginocchia e la schiena. Ma all’epoca non si parlava di atassia, sembrava che si trattasse di scoliosi. Insomma, alcune avvisaglie magari c’erano state, però la malattia non si conosceva e i sintomi non venivano riconosciuti in quanto tali. Per esempio, da ragazza Francesca camminava in modo strano e quando era piccola non aveva mai gattonato, cosa che poi abbiamo scoperto essere un elemento caratteristico dell’atassia di Friedreich”.
“Fu un neurologo dell’ospedale Bambino Gesù a parlare per la prima volta di atassia di Friedreich. Era una cosa troppo grande per noi ed eravamo tutti frastornati”.
“Da bambina Francesca ballava benissimo”, prosegue sua sorella. “Ma quando qualche anno dopo andammo insieme in palestra a fare aerobica non riusciva a coordinare i passi sullo step. Io avevo 20 anni, lei 14, e la cosa faceva ridere entrambe. Fu solo dopo quell’estate in Sardegna che cominciammo a preoccuparci davvero. Tornate a Roma, Francesca andò da un ortopedico che però le consigliò di consultare un neurologo. Così un neurologo dell’ospedale Bambino Gesù parlò per la prima volta di atassia di Friedreich. Poco dopo mia sorella si ricoverò al Policlinico Umberto I dove, dopo 15 giorni e una serie di accertamenti, venne confermato il sospetto. E dopo la scoperta del gene, nel 1996, venne ufficializzata la diagnosi. A quel tempo non ci capivo niente, era una cosa brutta, troppo grande per noi e noi tutti eravamo frastornati. Qualche anno dopo anche a me fecero l’esame del Dna e risultai portatrice sana della malattia, esattamente come entrambi i miei genitori”.
“La psicoterapia mi ha aiutato tanto, bisognerebbe prevedere la figura di uno psicologo per tutte le famiglie, non mi stanco mai di ripeterlo”.
“Io e Francesca abbiamo un ottimo rapporto, io ho sempre cercato di aiutarla e di sostenerla, ma negli ultimi tempi ho cominciato a mettere qualche paletto e lei ne ha risentito”, precisa Maria. “Le cose sono cominciate a cambiare quando ho incontrato il mio attuale compagno, perché non avevo più le stesse priorità. Rimanevo nel vago, quando lei mi chiedeva qualcosa, non rispondevo né sì né no. Oltre un anno fa, poi, ho iniziato ad andare da una psicoterapeuta, che mi ha aiutato a vedere le cose da un altro punto di vista. Ero troppo disponibile con la famiglia e troppo protettiva con Francesca: da un lato, a volte la opprimevo e, dall’altro, rischiavo di rinunciare a vivere la mia vita. Veniva sempre prima lei e poi io, prima le sue esigenze e poi tutto il resto. La psicoterapia mi ha aiutato tanto, bisognerebbe prevedere la figura di uno psicologo per tutte le famiglie, non mi stanco mai di ripeterlo. Per fortuna oggi l’Aisa-Associazione italiana sindrome atassiche fornisce un servizio di questo tipo, ma all’inizio non era così”. Quanto a Francesca, Maria la descrive in questo modo: “È una persona solare, riesce a fare tutto, si muove da sola, lavora, va a cavallo, ha tantissimi amici. A casa poi è molto autonoma, chiede aiuto esclusivamente quando da sola proprio non ce la fa. Sono stata sempre molto protettiva con lei, anche prima della diagnosi, ero sempre troppo disponibile, ho fatto bene a cominciare un percorso di psicoterapia”.
“Ho messo a fuoco questi meccanismi quando è entrata una persona importante nella mia vita. Ci sono state tante discussioni, ma alla fine è stato il mio compagno ad aiutarmi”.
“Facendo psicoterapia ho imparato a pensare di più a me, ma è solo l’inizio di un cammino lungo e difficile. Vivevo dentro di me quest’angoscia costante, avevo sempre il desiderio di far stare bene mia sorella. Per esempio, l’accompagnavo ovunque anche se mi sentivo stanca oppure non andavo in vacanza nel mese di agosto perché lei voleva restare a casa. Il mio compagno voleva partire ad agosto, ma io ero abituata a restare con lei. Ci sono state tante discussioni, ma alla fine è stato lui ad aiutarmi a comprendere meglio me stessa. C’è voluto tempo e non è stato semplice, io ho continuato a non capire a lungo. Anche una mia cara amica mi diceva di non fare sempre quello che voleva mia sorella, ma non insisteva perché io mi irritavo subito. Poi, quando ho cominciato ad andare dalla psicologa, le cose sono cambiate. All’inizio Francesca ha sofferto molto, ma col tempo è diventata più indipendente e ha cominciato a pensare che la psicoterapia avrebbe potuto aiutare anche lei a comprendere meglio il nostro rapporto. È questo il bello di entrambe: siamo disposte a metterci in discussione, in qualsiasi momento. Io però non sono arrabbiata con lei”, riflette Maria. “Se considero che lei, solo per alzarsi dal letto, deve pensare a quale sia il modo migliore per farlo, mi rendo conto che spetta a me farle capire le cose, senza rinunciare alla mia vita. E Francesca, da parte sua, è molto aperta. Non è che pretendesse le cose, per lei era tutto normale, perché eravamo abituate a vivere così. Oggi non abbiamo ancora raggiunto un equilibrio completo, ma ci stiamo lavorando. E appena trovo un nuovo lavoro, torno dalla psicologa. Magari insieme a Francesca, che è una persona a cui piace l’idea di migliorare sempre”.
Francesco ha 21 anni e frequenta il secondo anno della facoltà di Giurisprudenza all’Università “Sapienza” di Roma. È andato a vivere nella capitale, lasciando la sua famiglia e il suo paese d’origine, Ospedaletto d’Albinolo. Pasquale, il fratello maggiore di due anni, è rimasto con i genitori. È affetto da ceroidolipofuscinosi, una malattia rara con insorgenza in età pediatrica, che riguarda un caso ogni 100mila nati. Catalogata in 13 diverse varianti, questa patologia dal nome difficile da pronunciare prevede una complessa serie di manifestazioni, tra cui epilessia, calo della vista, disturbo motorio e decadimento cognitivo.
La presenza di mio fratello non ha mai rappresentato un peso per me.
Lo definisco semplicemente una persona speciale.“Ho scelto la facoltà di Giurisprudenza perché si tratta di una materia che mi piace molto”, esordisce Francesco. “E ho deciso di andare a studiare a Roma, perché volevo diventare più autonomo. Così ora condivido un trilocale con tre ragazzi di Avellino e sono diventato effettivamente più indipendente. Oggi, infatti, cucino, faccio la lavatrice, pago le bollette, insomma faccio tutto quello che bisogna fare quando si va a vivere da soli o, per lo meno, ci provo». Quanto a suo fratello, racconta: “I miei scoprirono la malattia di Pasquale quando lui aveva quattro anni e io due. Ero troppo piccolo per avere dei ricordi chiari della trasformazione di mio fratello: so solo che un tempo parlava, giocava e camminava esattamente come gli altri bambini”. Anche sulla manifestazione della patologia e il conseguente cambiamento delle abitudini familiari, Francesco non calca la mano, forse proprio perché all’epoca era solo un bambino di due anni. “La cosa non mi è mai pesata”, afferma. “Non ho mai provato vergogna. Sono cresciuto come un figlio unico, la presenza di mio fratello non ha mai rappresentato un peso per me. Lo definisco semplicemente una persona speciale”.
Per quanto mi riguarda non mi sono mai sentito trascurato, ho ricevuto sempre le attenzioni di cui avevo bisogno.
“I miei genitori hanno sempre cercato di non fare differenze tra e me Pasquale”, prosegue Francesco. “Si sono sempre sforzati di metterci sullo stesso piano e di non avere atteggiamenti privilegiati nei confronti dell’uno o dell’altro. Per quanto mi riguarda non mi sono mai sentito trascurato, ho ricevuto sempre le attenzioni di cui avevo bisogno”. Tuttavia, da sempre Francesco ha avvertito che suo fratello avesse bisogno di una considerazione speciale e ha sempre cercato di fare tutto quello che poteva per aiutare Pasquale e i suoi genitori. “Quando posso, do una mano”, precisa. “Se sono a casa, in genere lo aiuto a passare dal letto alla sedia, visto che sta diventando troppo pesante per mia madre. O, quando andiamo al mare, lo assisto nel fare il bagno, soprattutto nel passaggio dal lettino all’acqua. Ho avuto sempre un buon rapporto con Pasquale e, se qualche volta mi sono arrabbiato, non me lo ricordo”. Fisicamente i due fratelli si somigliano: “Abbiamo entrambi gli occhi e i capelli castani ed entrambi, nell’aspetto, ricordiamo nostro nonno materno. Pasquale, però, è molto più magrolino”. Quanto al carattere, la faccenda è più complicata: “La malattia che lo ha colpito non gli ha dato la possibilità di esprimere un carattere preciso. Questo non vuol dire, però, che non riesca a comunicare: ci fa capire le sue esigenze attraverso piccoli movimenti del corpo, si rende conto che una persona gli sta parlando e si accorge del contatto fisico. A volte basta un semplice movimento delle braccia per esprimere un’intenzione. Per noi che lo conosciamo non è difficile capire cosa vuole dire, chi lo conosce bene come noi sa quando va tutto bene e quando è il caso di preoccuparsi”.
Pasquale è un tipo tranquillo, non è difficile stare da soli con lui. Non è mai mancata occasione per aiutare mamma, e io sento il dovere di farlo.
“Ho sempre dato una mano a casa”, ribadisce Francesco. “A volte mi offro volontario per stare con mio fratello, quando i miei escono con gli amici. Ho molta esperienza e nessun problema a restare solo con lui: posso aiutarlo ad andare al bagno, cambiarlo, portarlo dal letto alla sedia e viceversa. Mamma mi ha insegnato più o meno tutto. E poi Pasquale è un tipo tranquillo, non è difficile stare da soli con lui”. Insomma, sottolinea Francesco, “non è mai mancata occasione per aiutare mamma, e io sento il dovere di farlo”. Poi sui ruoli all’interno della famiglia, aggiunge: “Qualche volta è un po’ come se fossi un figlio unico: non perché io non percepisca la presenza di Pasquale, ma perché alcune cose le ho fatte soltanto io. Così, mi capita di chiedermi come sarebbe stato il rapporto tra noi, se non ci fosse stata la malattia. Per il resto la sua presenza nella mia vita non ha creato nessun problema. Gli altri pensano che abbia influito negativamente, ma non è vero. Tanti neppure si rendono conto dell’esistenza della disabilità, ma io ho imparato a convivere con la malattia di mio fratello. E i miei genitori hanno sempre cercato di non far pesare il proprio malessere su di me. Non ho mai sentito dire a mia madre: perché è successo proprio a me? Il comportamento dei miei genitori ha avuto un’influenza positiva su di me”.
Quando sono nato io, la malattia non si era neppure manifestata: se i miei genitori lo avessero saputo, magari non avrebbero neppure pensato a fare un altro figlio.
“Pasquale è nato nel 1996 e si è ammalato nel 2000, all’età di quattro anni. I miei genitori sono entrambi portatori sani di da ceroidolipofuscinosi. In passato ho fatto tante domande sulla malattia di mio fratello, oggi non chiedo più nulla. Prima domandavo sempre: perché? Come mai? Cosa è successo? Adesso penso ai molti genitori portatori sani, come i miei, che hanno due o tre figli con la stessa malattia di Pasquale. Io, invece, non sono neppure portatore sano. E, quando sono nato io, la malattia non si era neppure manifestata: se i miei genitori lo avessero saputo, magari non avrebbero neppure pensato a fare un altro figlio. Insomma, è chiaro che la cosa mi tocchi in maniera diretta”.
Il problema è che la malattia non si stabilizza, si aggrava. Non so per quanto tempo potrò godere della presenza di mio fratello: ma finché lui ci sarà, io sarò accanto a lui.
“Spesso quando esco con gli amici mi rendo conto della loro reazione di preoccupazione o tristezza alla vista di persone affette da malattie gravi. Io, invece, vedo la disabilità come un raggio di luce e non reagisco allo stesso modo. Da questo punto di vita la malattia di mio fratello mi ha davvero aperto la mente. Quando i miei escono, io invito gli amici a casa e, mentre aiuto mio fratello, spiego loro cosa sto facendo. In questo modo trasmetto loro qualcosa. Probabilmente, qualcosa di positivo. Il problema vero”, continua, “è che questa malattia limita le aspettative di vita. Non si stabilizza, si aggrava. Non so per quanto tempo ancora potrò godere della presenza di mio fratello: ma finché lui ci sarà, io sarò accanto a lui. Mi è pesato andare via, all’università: so che in famiglia è venuto a mancare un aiuto. Ma volevo scappare dal paese, fare esperienze, aprirmi a livello mentale. E ora vivo a Roma, a circa due ore di auto da casa. Ma quando posso, torno sempre: so che in famiglia posso sempre dare una mano”.
Intervista a cura di Antonella Patete.
Pasquale è mancato all’affetto dei suoi cari il 12 maggio 2019. La redazione di Rare Sibling e di Osservatorio Malattie Rare si unisce al cordoglio di Francesco e della sua famiglia.
Per onorare la memoria di Pasquale pubblichiamo qui la lettera che Francesco ha dedicato al suo amato fratello durante la cerimonia funebre.
Prima di iniziare vorrei ringraziare tutti, a nome di tutta la mia famiglia, per l’affetto che ci state dimostrando e il supporto sia fisico che morale….
E’ stato difficile trovare le parole giuste, in queste occasioni trovarle non è semplice ma ho dovuto farlo, perché mio fratello merita un ultimo degno saluto.
Mi piaceva definire Pasquale un fratello “speciale” e speciale era anche il nostro rapporto.
Pochi giorni fa, dopo aver aderito ad una iniziativa promossa dall’Associazione Nazionale Ceroidolipofuscinosi e da Omar “Rare Sibling”, è stata pubblicata sui social una mia intervista attraverso la quale ho potuto esprimere quello che era Pasquale per me!
Pasquale mi ha insegnato molto, grazie a lui ho capito cosa vuol dire combattere, combattere contro qualcosa più grande di noi, mi ha insegnato a non dar mai nulla per scontato e ad essere sempre forte. Ed è la forza che ci ha trasmesso che ci ha reso quelli che siamo…
Le nostre giornate iniziavano per Pasquale e finivano con Pasquale, era il nostro mondo, un mondo difficile da capire ma che abbiamo vissuto con serenità ed amore.
Serenità ed amore, la serenità di mio padre, un grande uomo, che con il suo semplice essere se stesso ha saputo mostrarmi i lati belli della vita nonostante tutto…. E l’amore di mia madre, una grandissima donna, per la quale nulla è mai stato difficile e che ha saputo nascondere anni di sacrifici e dolori dietro un bellissimo sorriso.
Grazie a voi ho vissuto la disabilità di Pasquale con tranquillità, mai fuori luogo, mai una parola di troppo, positivi e pronti a dare il 100% anche in situazioni estreme. Non dovete pentirvi di nulla, siete stati i genitori che Pasquale ha sempre desiderato.
Da oggi bisogna partire dagli insegnamenti di Pasquale, lottare ed essere forti, la vita continua!
Spero dal profondo del cuore, magari, di poter essere visti come esempio di vita, affinchè i ragazzi “speciali” come Pasquale possano sentirsi parte del mondo e non un mondo a parte!
Ciao Pasquale, ci vediamo presto!
Nicoletta ha 59 anni, un marito e due figli di 28 e 20 anni. Di mestiere fa l’insegnante di scuola primaria ed è la quarta di otto fratelli e sorelle. Fino ad alcuni anni fa, insieme alla sua numerosa famiglia d’origine, viveva nel quartiere popolare romano del Testaccio. Da alcuni anni si è trasferita, però, ad Axa Malafaede, una zona più tranquilla e verdeggiante nel quadrante Sud della Capitale. Poco per volta, poi, sono arrivati quasi tutti i membri della sua famiglia. La ragione di questo trasferimento di gruppo sta principalmente nella necessità di far fronte alle esigenze di suo fratello Marco, di 13 anni più giovane di lei. Marco, che oggi ha 46 anni ed è l’ultimo nato, vive con la madre in un appartamento a piano terra che condivide il giardino con quello di Nicoletta. Nato con parto podalico, Marco ha una tetraparesi spastica dovuta ad asfissia prenatale. “Comprende tutto, ma non si muove, non riesce a mangiare da solo e ha difficoltà di deambulazione”, dice sua sorella. Per rendere le cose più semplici all’intera famiglia quasi tutti i fratelli si sono spostati ad Axa Malafede, dove le case sono più spaziose, i parcheggi non mancano e la vita è meno stressante.
“Quando Marco è arrivato a casa dall’ospedale sono cominciati i viaggi della speranza.
Non c’è posto dove i miei non lo abbiano portato, le hanno provate tutte.”“È importante stare tutti vicino perché Marco ha bisogno di tanta assistenza”, spiega Nicoletta. “Non riesce a fare nulla da solo, neppure a bere un bicchiere d’acqua. Quando è arrivato, io ero poco più di una bambina. La nostra famiglia ha scoperto un mondo totalmente nuovo, di cui non conoscevamo nulla. Subito dopo la nascita ci hanno chiamato per vederlo”, ricorda. “Ma non avevamo fatto in tempo ad arrivare in ospedale che già avevano chiuso le tendine del nido, perché il bambino era diventato tutto nero. Da qui ha avuto inizio questa cosa incomprensibile: i primi due mesi è stato in incubatrice tra la vita e la morte, poi sono cominciate le incertezze nella diagnosi: all’inizio dicevano che fosse cieco, ma la verità è che non erano in grado di dire cosa avesse. A casa intanto regnava l’angoscia più totale: mia madre piangeva sempre e poi, quando è tornato a casa, sono cominciati i viaggi della speranza. Non c’è posto dove i miei non lo abbiano portato, le hanno provate tutte, compreso il metodo Glenn Doman, un sistema di riabilitazione che coinvolge tutta la famiglia e si basa su una serie di tecniche ed esercizi fisici da ripetere quotidianamente”.
“Noi fratelli provavamo un senso di colpa, soprattutto quando uscivamo il sabato e la domenica. Ci mettevamo d’accordo tra noi: c’era sempre qualcuno che restava con Marco per fare qualcosa con lui”
“Marco è rientrato nei primi inserimenti nella scuola che proprio in quegli anni cominciava ad aprire le porte ai bambini con disabilità”, prosegue Nicoletta. “Ma non è stato facile. A 4 anni, insieme a due altri bambini con difficoltà, ha cominciato a frequentare la scuola materna a Piazza della Scala, nel quartiere di Trastevere, perché era l’istituto più vicino disposto ad accoglierlo. Non camminava e non parlava, non era facile trovare una scuola che lo accettasse, c’erano sempre tanti problemi. Mia madre è stata molto forte, una vera “guerriera”, in grado di coinvolgere l’intera famiglia nella cura di Marco: bisognava accompagnarlo in piscina, a fare logopedia, seguire la riabilitazione prevista dal Metodo Doman. Ha cresciuto questo figlio con tante difficoltà, era una cosa che riguardava tutti noi e tutto ruotava intorno a lui.
Noi fratelli provavamo un senso di colpa, soprattutto quando uscivamo il sabato e la domenica. Ci mettevamo d’accordo tra noi: c’era sempre qualcuno che restava con Marco per fare qualcosa con lui. Erano altri tempi, non era così raro che i fratelli più grandi si prendessero cura di quelli più piccoli. Per esempio, già quando avevamo 13 o forse 14 anni, io mia sorella Carla accompagnavamo mia madre ovunque, perché lei non aveva la patente. Eravamo tutti molto sensibili alla situazione di questo fratellino, che tanto spesso ci teneva in ansia. È stato un impegno davvero grande, che ci ha coinvolti in tutti i sensi. Marco le ha provate tutte, ha fatto interventi molto lunghi, ma da quando è nato è stato tutto emotivamente impegnativo. Noi fratelli provavamo un’altalena di emozioni, a volte, avevamo momenti di rabbia perché sentivamo la mancanza dei nostri genitori, che ci sembravano assenti: per loro esisteva solo Marco con i suoi problemi, e noi ci sentivamo abbandonati. Alla rabbia si alternava però il senso di colpa perché noi potevamo andare fuori e lui restava sempre là, in casa, senza mai diventare indipendente. Nel frattempo noi crescevamo troppo in fretta, ci dovevamo occupare di tante cose, compresa mia sorella più piccola, che aveva soli tre anni più di Marco. Non c’era nulla che mia madre non facesse per lui”.
“Se sono diventata un’insegnante di scuola primaria, lo devo anche a Marco. Ho sofferto molto per le difficoltà che ha incontrato lui e ho promesso a me stessa che sarei stata la maestra di tutti”
Anche la scuola è stata un problema per Marco, non era facile trovarne un’adatta. “Alle elementari andava alla Vittorino da Feltre, vicino al Colosseo, dove c’era una lunga scala a chiocciola per raggiungere le aule. Ha iniziato bene la prima elementare, ma in seconda sono arrivate due maestre nuove: una di queste si rifiutava perfino di entrare in classe, diceva che non voleva vedere gli “handicappati”. Se più tardi sono diventata un’insegnante di scuola primaria, lo devo anche a Marco”, sottolinea Nicoletta. “Ho sofferto molto per le difficoltà e le chiusure che ha incontrato lui e ho promesso a me stessa che sarei stata la maestra di tutti. All’inizio della carriera ho fatto anche l’insegnante di sostegno, poi dal 1995 insegno “su classe”. Volevo che il clima nella mia classe dovesse essere sempre positivo per tutti e così è stato. Perciò oggi mi affidano i bambini più problematici, che trovano spazio nella mia classe. Essere la sorella di Marco mi ha dato una grande sensibilità”, riflette Nicoletta. “E poi ci ha reso una famiglia molto unita, che gira intorno a questo fratello a cui vogliamo un gran bene e che cerchiamo sempre di aiutare in tutti i modi”.
“Noi fratelli andiamo a turno a metterlo a letto, perché lui ha bisogno di tutto: deve essere imboccato, lavato, portato al bagno.”
Oggi Marco vive con la madre di 87 anni, ma la sua vita è ancora ricca di impegni. “Due volte a settimana va al laboratorio d’arte, una volta va in piscina e, un’altra volta, al cinema”, racconta Nicoletta. “Adesso che nostra madre è diventata anziana ci sono alcuni problemi di gestione, difficili da affrontare, perché Marco ha un’assistenza di giorno ma non di notte e nelle ore notturne mia madre non riesce a fargli cambiare posizione, come invece andrebbe fatto. Così noi fratelli andiamo a turno a metterlo a letto, perché lui ha bisogno di tutto: deve essere imboccato, lavato, portato al bagno. Poi ci sarebbero anche i nipoti, ma sono sempre molto impegnati e alcuni di loro hanno provato gelosia nei suoi confronti. I miei figli no, per fortuna, anche se quando erano pre-adolescenti qualche volta hanno sofferto anche loro: si sentivano trascurati, a volte pensavano che per noi esistesse solo Marco”. Alla domanda cosa accadrà nel futuro Nicoletta risponde: “La nostra famiglia ha superato tanti problemi, ma siamo restati uniti. Marco oggi è sereno, non soffre, si accontenta della vita che ha. Mamma è molto anziana e papà non c’è più, ma noi andiamo avanti lo stesso. E il giorno che anche lei dovesse venire a mancare, vedremo come organizzarci. In un modo o nell’altro ce la faremo”.
Intervista a cura di Antonella Patete.
Lidia ha 17 anni e frequenta il liceo linguistico. È nata a Cetraro, in provincia di Cosenza, ma oggi vive a Pombia, un comune di 2mila anime a una trentina di chilometri da Novara. Suo fratello Sebastiano, di tre anni più piccolo, ha la Sindrome dell’ X Fragile, una malattia rara genetica ed ereditaria che colpisce 1 caso su 4.000 maschi e 1 su 7.000 femmine e comporta disabilità cognitiva, problemi di apprendimento e difficoltà relazionali.
“Non appena sarò maggiorenne trascinerò Sebastiano per fargli scoprire posti nuovi e farlo avvicinare ancora di più alle culture che lo interessano”
“Sono una persona introversa, ma questo dipende dalle varie situazioni. Non amo particolarmente essere al centro dell’attenzione adoro viaggiare e scoprire culture diverse e molto spesso cerco di invogliare mio fratello nel seguirmi nelle mie varie avventure”, dice Lidia di sé. “Ma è solo questione di qualche mese, non appena sarò maggiorenne lo trascinerò per fargli scoprire posti nuovi e farlo avvicinare ancora di più alle culture che lo interessano, come quella inglese ad esempio. Non provo spesso la necessità di avere grandi compagnie attorno, o meglio, gli amici li ho, ma non sento la loro mancanza se ci perdiamo di vista per qualche giorno, infatti posso tranquillamente passare un fantastico pomeriggio anche in compagnia della mia famiglia, guardando un film o leggendo un buon libro. Se dovessi usare tre parole per descrivermi, direi che sono avventurosa, curiosa e scherzosa”.
“Se dovessi descrivere mio fratello in tre parole,
sceglierei tenero, creativo e amante della routine”“Mio fratello per alcuni versi è simile a me, diciamo che la maggior parte delle cose che lo interessano erano cose che piacevano anche a me da piccola”, prosegue Lidia. “Gli piace stare in compagnia e dà molta importanza a ogni legame che instaura con i ragazzi e ragazze della sua età. Adora, nel verso senso della parola, il suo computer, che rappresenta il suo passatempo preferito e forse ci passa anche troppo tempo davanti. Gli piace costruire oggetti, cucinare e fare i puzzle. La sua giornata perfetta sarebbe composta da queste tre cose: un buon piatto di pasta della nonna a pranzo, un pomeriggio passato nella sua stanza personale con i vari giochi e ovviamente anche col suo computer e, infine, una bella pizza per cena, mangiata rigorosamente nella sua pizzeria preferita. Se poi dovessi descriverlo in tre parole, sceglierei tenero, creativo e amante della routine”.
“Nel corso degli anni, il nostro rapporto è migliorato molto.
Io ho imparato a conoscerlo meglio e lui ha fatto lo stesso con me”“Sebastiano sa essere molto testardo”, precisa Lidia, “ma nella maggior parte dei casi il mio ruolo di sorella maggiore si fa sentire e alla fine accetta tutte (o quasi) le iniziative che lo spingo a prendere. Mi piace il modo scherzoso che ha di comportarsi quando giochiamo noi due e anche la classe che sa dimostrare quando gli viene richiesta. Anzi penso proprio che abbia una dote particolare di buone maniere innate. Ma, come dicevo prima, sa anche essere molto testardo e, quando decide di non fare una cosa, non la fa per nessun motivo al mondo. A volte vorrei che i miei genitori fossero più esigenti sotto questo punto di vista, perché ho un fiuto che loro non hanno nel comprendere quando si tratta solo di una scenate. Come tutti i fratelli e sorelle litighiamo ogni tanto, ma sono più le volte in cui scherziamo o quando lo obbligo a ballare assieme. Penso che, nel corso degli anni, il nostro rapporto sia migliorato molto. Io ho imparato a conoscerlo meglio e lui ha fatto lo stesso con me. Anche se capita di arrabbiarci per qualcosa, alla fine ci capiamo sempre”.
“Forse quando ero più piccola mi capitava di essere gelosa di lui, ma ora cerco di comprendere appieno le sue esigenze perché capisco che per lui non è facile”
“I primi ricordi che ho di lui risalgono al giorno della sua nascita: non posso dimenticare le mie urla nel momento in cui sono dovuta uscire dalla stanza di mia madre. All’inizio non mi piaceva particolarmente l’idea di perdere tutte quelle attenzioni che mi erano state riservate fino a pochi minuti prima. I miei genitori, però, sono molto attenti, soprattutto mia madre che passa molte più ore con lui. Ovviamente Sebastiano richiede maggiori attenzioni di me, ma posso dire di non sentirmi trascurata, anzi i miei sono sempre pronti ad ascoltarmi e a dare tutti loro stessi per me. Forse quando ero più piccola mi capitava di essere gelosa di lui, tra l’altro penso che questa cosa sia più accentuata durante l’infanzia, ma ora che siamo cresciuti no. Anzi, cerco quasi sempre di comprendere appieno le sue esigenze e di mostrarmi disponibile perché capisco che in realtà per lui non è facile. E non mi arrabbio con mamma e papà perché mi sento trascurata, ma quando capita cerco di farmi valere anch’io”.
“Spero che anche Sebastiano piano piano riesca a vivere la sua vita nella maniera più serena possibile, circondato dall’affetto della sua famiglia e, soprattutto, dal mio”
“Io sono una persona molto selettiva, cosa che non sempre è una buona qualità, ma penso che nella mia vita sia un punto a favore, quindi cerco di crearmi amicizie sincere che comprendano i miei problemi e quelli della mia famiglia. Posso dire di non avere mai sofferto per la presenza di mio fratello sotto questo aspetto, infatti col tempo sono sempre riuscita a circondarmi di persone “vere”. Anzi, molte volte i miei amici rivolgono le loro attenzioni più a lui che a me e mi chiedono sempre come sta. Quanto al futuro, spero di realizzare la maggior parte dei miei sogni e di riuscire a fare qualcosa che nella vita mi dia gioia e soddisfazioni, in tutti gli ambiti. E spero che anche Sebastiano piano piano riesca a trovare degli svaghi, come coltivare la passione per la cucina, e che riesca a vivere la sua vita nella maniera più serena e tranquilla possibile, facendo le cose che ama fare, circondato dall’affetto della sua famiglia e, soprattutto, dal mio”.
Intervista a cura di Antonella Patete
Lara fa l’attrice di teatro e di strada, vive a Roma, ha 39 anni e un compagno. Del suo nucleo familiare d’origine, un tempo numeroso, oggi è rimasto solo Fabio. Loro due insieme sono una famiglia e, anche se non vivono insieme, nessuno li può separare. Oggi Fabio ha 54 anni, ma da quando era ragazzo vive in uno dei centri di riabilitazione romani del Don Guanella, una struttura sull’Aurelia Antica che da quasi cento anni ospita persone con disabilità intellettiva. Da bambino, all’età di 8 anni, ha contratto la poliomielite, che gli ha paralizzato la parte destra del corpo, compromettendo anche l’emisfero cerebrale. Ma rimane un tipo “sempre presente a se stesso, in gamba e testardo. E con l’età la cosa non accenna a migliorare”, sorride Lara che di questo fratello e della sua spiazzante energia non sa fare a meno. Perché la fa ridere e arrabbiare, commuovere e sorridere.
“Al Don Guanella si trova molto bene: l’ambiente è familiare, gli operatori sono bravi e i ragazzi che vivono lì sono spettacolari”
“Quando eravamo piccoli trascorrevamo lunghi pomeriggi giocando a carte”, racconta Lara. “È il primo ricordo che ho di me e lui insieme. Passavamo le ore a giocare a scopa, a briscola o a qualunque altro gioco potesse venirci in mente. Oppure passavamo il tempo a mangiare. All’epoca Fabio era un ragazzo di 110 chili, goloso in maniera indecorosa. Quando tornava nella nostra casa di Ostia per le vacanze, io e lui ci allontanavamo piano piano per andare a fare una passeggiata e poi ci dirigevamo dritti in gelateria. Cercavamo di non farci vedere da papà, che non voleva che mangiasse così tanto. Io ero sempre sua complice, nell’aiutarlo a fare le cose che voleva. D’altra parte, trasgredire piaceva anche a me”.
All’epoca Fabio trascorreva a casa alcuni periodi di vacanza, ma adesso che della famiglia d’origine è rimasta solo Lara e le sue condizioni si sono aggravate, le cose sono un po’ cambiate: “Ora ha bisogno di molta assistenza e io da sola non ce la faccio”, sottolinea sua sorella. “Ho trovato il modo di rimediare andandolo a trovare più spesso. Al Don Guanella si trova molto bene e anche a me piace andarci: l’ambiente è familiare, gli operatori sono bravi e i ragazzi che vivono lì sono spettacolari. Quando vado a fargli visita, spesso giochiamo a scacchi”, prosegue Lara. Ma non si tratta di una partita canonica. Le regole del gioco sono altre: elastiche, bizzarre, imprevedibili. “Abbiamo una visione “onirica” degli scacchi”, scherza Lara. “Le nostre partire non hanno regole o forse hanno altri tipi di regole: ogni mossa ha un suo perché e quel perché va esplicitato a parole. A volte la regina può muoversi solo in un senso perché non vuole guardare il cavallo, altre volte il pedone può tornare indietro sulla scacchiera perché ha dimenticato qualcosa di importante nella casella precedente. Tutto procede secondo una ragione, chiara soltanto a noi due”.
“Poi papà ci ha lasciato e io sono rimasta sola con Fabio:
ci sono solo io, io e sempre io. Mi sono dovuta assumere la responsabilità di prendere decisioni difficili”Se le chiedi come è Fabio, Lara risponde spedita: “È un pazzo totale” ride. “Una persona dolcissima con un caratteraccio. È caparbio, sincero, un “impunito”. Ci capiamo al volo, senza bisogno di parole, per me comunicare con lui è la cosa più facile del mondo. Fabio è la mia famiglia, il compagno della mia infanzia e della mia età adulta. C’è da sempre nella mia vita, da quando ero piccola”. Col tempo il rapporto tra i due fratelli è cambiato. Soprattutto dopo la scomparsa del padre 5 anni fa, Lara è rimasta l’unica a prendersi cura di Fabio. “Mi occupo di lui da quando avevo 15 anni, anche quando era ancora vivo papà. Poi papà ci ha lasciato e io sono rimasta sola con Fabio: ci sono solo io, io e sempre io. Mi sono dovuta assumere da sola la responsabilità di decisioni difficili, e non è facile. Il mio compagno a volte mi dà una mano, perché gli fa piacere e poi se ami me, devi per forza amare anche Fabio”. Col tempo però Lara è stata costretta ad assumere un atteggiamento di natura quasi genitoriale nei confronti del fratello maggiore. “A volte ho dovuto perfino rimproverarlo”, spiega. “Per esempio, una delle ultime volte che è stato ricoverato si rifiutava di fare un esame importante. Fabio non è interdetto, io mi sono sempre rifiutata di fare questo passaggio, perciò può fare quello che vuole lui. Così quella volta sono stata costretta ad andare da lui a brutto muso. Ma non c’è stato nulla da fare lo stesso, quando si mette una cosa in testa, quella è. Allo stesso modo, quando è nella giornata storta, diventa un problema. Succede raramente, ma se succede sono guai. Non lo convince nessuno, puoi anche strapparti i capelli dalla testa, ma continua a fare come dice lui. E può accadere anche per le piccole cose, tipo voler indossare a tutti i costi il cappello di un altro ospite del Don Guanella, il quale magari ha a sua volta qualcosa in contrario. E allora sono guerre e faide. Per fortuna ho un grande senso dell’umorismo, è quello che mi salva”.
“Mentre i miei coetanei si preoccupavano di cosa fare il sabato, io dovevo passare dal dottore a prendere l’impegnativa per le scarpe di Fabio”
“Sono stata anche io una giovane caregiver” ammette Lara. “Mia madre mi ha lasciato quando avevo 2 anni e si può dire che, nella cura di mio fratello, sia stata più io accanto a mio padre che lui accanto a me. È da quando avevo 15 anni che mi occupo di tutto, dalla casa alle esigenze di Fabio. All’inizio ho vissuto tutto con un senso di claustrofobia, poi ho imparato a gestire la situazione e la rabbia, e le cose non vanno più male come prima. Però mentre i miei coetanei si preoccupavano di cosa fare il sabato e la domenica, io avevo le camicie da stirare o dovevo passare dal dottore a prendere l’impegnativa per le scarpe di Fabio. Insomma, la parte più bella della crescita l’ho vissuta dopo, forse la sto vivendo ora”. Eppure suo fratello non ha mai rappresentato un problema per Lara: “La sua presenza nella mia vita mi ha dato la possibilità di conoscere tante bellissime persone”, prosegue, “e di riuscire trovare una bellezza e una naturalità nella sofferenza. È Fabio che me l’ha insegnato: l’ho visto ridere mentre stava male, per esempio, o mentre riceveva notizie dure, come la morte di amici del centro o di papà, come se lo sapesse da sempre che quel momento sarebbe arrivato: la sua mente non saprà fare estrosi calcoli matematici ma è molto più aperta della media. A volte, però, il suo stare male mi faceva paura: soprattutto le crisi epilettiche che aveva da ragazzo. Da piccola mi spaventavo, era l’unica cosa di Fabio che mi metteva a disagio, perché non riuscivo a capire. Nessuno mi ha spiegato cosa stava accadendo, fino a che, a poco a poco, ho introiettato la cosa e ho smesso di avere paura”.
“Esiste sempre un modo per comunicare con un essere vivente.
L’unico ostacolo alla comunicazione è la morte”“Al momento sto scrivendo un testo teatrale che parla del rapporto tra due sorelle”, conclude Lara. “Una delle due è disabile, l’altra normodotata. Non si evince nessuna differenza tra le due e, solo alla fine, si capisce che una di loro è sulla sedia a rotelle. Mi interessa esplorare le possibilità di comunicazione diversa che la disabilità ti offre e non vederla o percepirla come un ostacolo o con “pietismo”, cosa molto difficile quando non hai “il mostro” in casa. Esiste sempre un modo per comunicare con un essere vivente, l’amore. L’unico ostacolo a una comunicazione sincera è la morte”.
Intervista a cura di Antonella Patete
Eleonora ha 36 anni ed è nata a Mantova, città nella quale attualmente risiede. Fino a cinque anni fa abitava a Roma, dove si era trasferita per lavoro, condividendo un appartamento con sua sorella Consuelo, di cinque anni più grande. Poi, per ragioni indipendenti e a distanza di due anni, entrambe hanno fatto ritorno nella città natale dove, pur non avendo ancora una propria famiglia, vivono in due abitazioni diverse. Prima è partita Consuelo, che oggi fa la Diversity Manager in una multinazionale operante nel campo dell’informatica. Successivamente Eleonora, che attualmente gestisce un centro estetico. Consuelo è diventata cieca per via di una malattia chiamata retinite pigmentosa: i primi problemi sono iniziati all’età di 10 anni e in pochissimi anni è diventata cieca al cento per cento.
“Stare dietro a mia sorella è un’impresa impossibile. È stata campionessa di canoa, operatrice shiatsu e di riflessologia plantare, collabora con varie organizzazioni, ama viaggiare…”
“Mia sorella è un uragano” dice Eleonora. “Starle dietro è un’impresa impossibile. Neanche le persone più “abili” ci riescono. È stata campionessa di canoa, è operatrice shiatsu e di riflessologia plantare, collabora con varie organizzazioni tra cui, per esempio, l’Uici (Unione italiana ciechi e ipovedenti) e l’associazione Abilitando, che si occupa di tecnologia e disabilità. E poi adora viaggiare, e spesso è in giro per convegni, dove tiene relazioni soprattutto sul tema dell’inclusione delle persone disabili. Insomma, è davvero instancabile: dorme poco, forse cinque o sei ore a notte. Va a letto la sera tardi e si sveglia presto la mattina”.
“È estroversa, vulcanica, generosa. Dopo la laurea, ha conseguito due master. La disabilità la penalizza, ma non la ferma”
I rapporti tra sorelle, si sa, sono spesso una questione complessa ed Eleonora e Consuelo non fanno eccezione. “Consuelo è molto puntigliosa ed estremamente esigente con se stessa e con gli altri”, la descrive Eleonora. “Ma è anche estroversa, vulcanica, generosa. Ha tantissimi amici, non si stanca mai di andare in giro e di cominciare nuove cose. Dopo la laurea in Lettere e Filosofia, ha conseguito due master: in Management delle risorse culturali, ambientali e paesaggistiche, prima, e in Disability Management, poi. Insomma”, precisa, “la disabilità la penalizza, ma non la ferma. Trova sempre il modo per aggirarla”.
“All’epoca io ero piccola, ma ricordo soprattutto che andavamo sempre in giro per visite mediche. Non abbiamo altri fratelli e sorelle e i miei volevano che mi sottoponessi anche io ai controlli”
“Consuelo ha iniziato a vedere poco e male a circa 10 anni. Prima portava gli occhiali, ma nessuno avrebbe sospettato la presenza di una malattia. Poi, a un certo punto, iniziato ha insistere che non vedeva alla lavagna e da lì è cominciato il giro delle visite mediche. È a Pisa che hanno parlato per la prima volta di retinite pigmentosa: mia sorella era molto giovane all’epoca, e la patologia è andata avanti con estrema rapidità. Così, a differenza della maggior parte delle persone che si ammalano in età avanzata, in pochi anni non vedeva più nulla. All’epoca io ero piccola, ma ricordo soprattutto che andavamo sempre in giro per visite mediche. Non abbiamo altri fratelli e sorelle e i miei volevano che mi sottoponessi anche io ai controlli”.
“La malattia era di tutta la famiglia e io ero partecipe in tutto e per tutto. A volte la disabilità può dividere, nel nostro caso ci ha uniti ancora di più”
“Non ho mai sofferto del fatto che i miei genitori mettessero la situazione di Consuelo al centro”, sottolinea Eleonora. “Fin da allora capivo che era una cosa importante: la malattia era di tutta la famiglia e io ero partecipe in tutto e per tutto. A volte la disabilità può dividere, nel nostro caso ci ha unito ancora di più. Penso che all’epoca i miei genitori provassero un sentimento simile al senso di colpa: per quanto possa apparire poco sensato, si sentivano responsabili di aver messo al mondo una figlia con un problema di tale portata. E poi tutto è cominciato durante la pubertà. All’inizio Consuelo è andata completamente in crisi. Per una persona che amava lo studio come lei, il fatto di non essere più indipendente nelle questioni scolastiche è stato veramente duro da accettare. Col tempo ha recuperato tutto, anzi ha preso una laurea e due master, ma all’inizio è stato davvero difficile. Di quel periodo ricordo i tanti pianti a casa e poi i viaggi in Italia e in Europa: i miei hanno fatto di tutto, non hanno voluto lasciare nessuna strada intentata”.
“I nostri genitori sono stati bravi: non hanno mai fatto differenze tra me e lei. Ci hanno trattato entrambe come due persone ‘normali’.”
“Quanto a me”, riflette Eleonora, “non mi sono mai sentita trascurata. I nostri genitori sono stati bravi: non hanno mai fatto differenze tra me e lei. Ci hanno trattato entrambe come due persone “normali”, senza fare sentire da meno nessuna delle due. Se un giorno avrò dei figli, mi piacerebbe comportarmi con loro come i nostri genitori si sono comportati con noi”. Le due sorelle, poi, erano completamente una l’opposto dell’altra. “Consuelo andava bene a scuola senza fatica e io invece mi dovevo applicare. Lei amava passare il tempo a studiare e io giocavo a pallavolo, la mia passione. A ora di cena bisognava sempre di ricordarle di venire a mangiare, mentre io non nutrivo lo stesso interesse per lo studio. A lei piaceva stare a casa a leggere, io adoravo uscire e andare a ballare. E queste differenze hanno fatto sì che non sempre andassimo d’accordo. Soprattutto nel periodo in cui condividevamo lo stesso appartamento a Roma ci capitava di litigare. Ognuna delle due faceva la propria vita, ma poi ci scontravamo proprio sulle cose più banali. Per esempio, pur essendo molto precisa, Consuelo è anche molto disordinata. Mentre io sono più rilassata su tante cose, ma alla fine a casa sono ordinata”.
“Ci piace trascorrere il tempo insieme, andiamo insieme in palestra e a fare viaggi, se possiamo.
A volte le chiedo consigli sulla mia vita, mentre lei è più abituata ad andare avanti per conto suo”Nonostante le differenze nel carattere, anche oggi le due sorelle sono abituate a trascorrere molto tempo insieme. “Ci cerchiamo sempre”, spiega Eleonora, “ci piace trascorrere il tempo insieme, andiamo insieme in palestra e a fare viaggi, se possiamo. A volte le chiedo consigli sulla mia vita, mentre lei è più incline ad andare avanti per conto suo. Ma anche io le do una mano se posso. In alcuni casi, per esempio, l’aiuto nelle questioni di lavoro, specie se si tratta di impaginare i materiali che poi usa per i diversi convegni. Riguardo al futuro non saprei”, conclude Eleonora. “Io rimarrò a Mantova, ma Consuelo chissà. Il suo lavoro e la sua vita sono sempre in movimento e non si sa mica dove la porteranno”.
Edoardo ha quasi 19 anni e vive a Roma con la sua famiglia. Alle scuole superiori, che ha terminato lo scorso anno con un bel 100 su 100, ha studiato Grafica e ora spera di trovare un lavoro bello e appagante, che gli dia modo di poter coltivare la sua passione per le arti visive: “Un lavoro che non sembri neppure un lavoro”, precisa, “perché se fai una cosa che ti piace non sembra neppure di andare a lavorare”. Nel frattempo, in attesa che arrivi l’occasione giusta, continua a studiare da autodidatta, approfondendo la conoscenza di alcuni linguaggi di programmazione, che potranno servirgli per la sua vita professionale. Edoardo è il primo di tre figli, ha due due sorelle più piccole, rispettivamente di 16 e 12 anni. La più grande Benedetta, è affetta da paraparesi spastica: una malattia rara neurodegenerativa, che colpisce dai 2 ai 9 casi ogni 100.000 mila persone e si caratterizza soprattutto per la presenza di ipostenia e spasticità degli arti inferiori, con conseguente difficoltà di deambulazione.
“Un giorno i miei tornarono da una visita medica e mi spiegarono che Benedetta aveva questa malattia. Era la prima diagnosi e venne fatta in maniera spietata”
“All’inizio non mi sono reso conto di niente”, racconta Edoardo. “Benedetta aveva già 8-9 anni quando si è cominciato a vedere qualcosa. Facevamo judo insieme a quel tempo, ma lei cadeva troppo spesso e si faceva più male di quanto non avrebbe dovuto. Io le davo una mano a rialzarsi, pensavo che fosse distratta e glielo facevo notare, ma lei ci rimaneva male e giurava che non dipendeva dalla sua volontà. Ero piccolo, non potevo immaginare che fosse qualcosa di grave, anzi non sapevo proprio cosa fosse una malattia degenerativa”.
Poi a poco a poco le cose sono diventate più chiare. “Un giorno i miei tornarono da una visita medica e mi spiegarono che Benedetta aveva questa malattia. Era la prima diagnosi e venne fatta in maniera spietata. Il medico disse ai miei genitori che mia sorella sarebbe finita su una sedia a rotelle e che non c’erano altre possibilità.
Fortunatamente le cose non sono andate così, quella previsione è stata smentita, perché oggi lei ha sì difficoltà deambulatorie, ma cammina. Pur perdendo a volte l’equilibrio e procedendo lentamente, cammina. Quella volta però i miei genitori andarono davvero su tutte le furie: il medico non aveva avuto alcun tatto e, come se non bastasse, aveva parlato in presenza di Benedetta, che era lì ed aveva ascoltato tutto”.
“Niente era più lo stesso, si può dire. Ogni singolo comportamento, pensiero, reazione era influenzato da quello che stava accadendo a Benedetta”
“Dopo la diagnosi sono cambiate molte cose. Niente era più lo stesso, si può dire. Ogni singolo comportamento, pensiero, reazione era influenzato da quello che stava accadendo a Benedetta. In famiglia c’era tristezza, rabbia, mancanza di serenità. Chi cercava di tenere alto il morale era papà, che ha sempre cercato di tranquillizzare e di incoraggiare gli altri, di dedicare a noi figli lo stesso tipo di attenzioni di prima. Io ero alle medie e ovviamente ero molto dispiaciuto, ma avevo anche la consapevolezza di non poter cambiare nulla. L’unica cosa che potevo fare era stare vicino a Benedetta, come potevo. Le stavo vicino quando raccontava che, a scuola, qualcuno si era preso gioco di lei o l’aveva trattata male. Ma io non ero presente in quei momenti, e non potevo fare niente di concreto per aiutarla”.
“Sono il fratello maggiore e lei mi vede come un punto di riferimento, ma io cerco di non invadere i suoi spazi e, se devo darle una mano, provo a farlo con discrezione”
“A volte mi sono sentito trascurato dai miei genitori”, ammette Edoardo. “Anche perché sono il primo figlio e, a parte Benedetta, c’era Sofia che era piccola. Ma sono anche un tipo che non ha bisogno di troppe attenzione. I miei genitori hanno avuto sempre grande stima di me, ho sempre conseguito ottimi risultati, anche dal punto di vista scolastico. Probabilmente sono maturato più in fretta dei ragazzi della mia età, forse dipende dal fatto che sono stato sempre con persone più grandi, a cominciare dagli stessi compagni di classe, visto che sono andato a scuola a cinque anni. Quanto a Benedetta, ora sta alle scuole superiori e studia Grafica come me. Sono il fratello maggiore e lei mi vede come un punto di riferimento, ma io cerco di non invadere i suoi spazi e, se devo darle una mano, provo a farlo con discrezione, senza entrare troppo nei dettagli. Certo, poi, come in tutte le famiglie si litiga, ma non sono mai cose gravi, con un po’ di impegno tutto si supera. Convivere con una situazione così inusuale ci ha insegnato che bisogna sempre cercare di restare tranquilli e di stare al meglio delle nostre possibilità. Personalmente, la situazione di mia sorella mi ha reso una persona più empatica, che riesce a comprendere meglio gli stati d’animo degli altri. E se mi chiedi come mi immagino il futuro con mia sorella, ti rispondo che non immagino nessun futuro e che preferisco concentrarmi sul presente. Al momento cerco un lavoro e, poi quando lo avrò trovato, probabilmente andrò a vivere da solo. Ma non credo di partire, di lasciare l’Italia, non penso a un distacco definitivo. Non voglio allontanarmi troppo dalla mia famiglia.”
Intervista realizzata da Antonella Patete
Cosa vuol dire avere un fratello raro?
Ce lo spiegano Ludovica, Francesca, Valeria, Valentina, Marco. Sono alcuni dei protagonisti del progetto Rare Sibling, che hanno raccontato le loro intense storie ai microfoni di Osservatorio Malattie Rare.
Hanno età diverse, ma sono accomunati da esperienze simili…
Mia fratello Alessandro ha una malattia chiamata acidemia metilmalonica con omocistinuria. Un nome complicato per una patologia che agli occhi di Marco sembra in realtà semplice, così com’è semplice, forte e immediato il legame che lo lega a suo fratello.
Se la mia vita fosse il titolo di un film? Sicuramente “Un’avventura senza limiti”, perché i limiti sono solo quelli che ci poniamo noi…
Mio fratello ha la retinite pigmentosa ma è uno che non si è mai posto un limite nella vita e mi aiutato a tirare fuori il meglio da me stesso. Oggi provo a passare ai miei alunni ciò che mi ha insegnato
Simone ha 38 anni, vive vicino Milano, a pochi isolati di distanza dalla casa dove è cresciuto insieme al fratello di 5 anni più grande, Samuele – per gli amici ‘Sam’, o per molti giocatori di basket ‘il coach’. Anche Sam non vive più nella casa dell’infanzia: ha la sua vita autonoma, una compagna, due figli, un locale da gestire. I due fratelli sono molto legati, stanno insieme almeno un paio di volte alla settimana e capita che vadano anche in vacanza insieme. Samuele ha una malattia rara della vista, la retinite pigmentosa, una malattia ereditaria e degenerativa che si manifesta con grosse difficoltà di visione notturna e con una progressiva perdita del campo visivo.
Per me Samuele è sempre così, aiutarlo in alcune cose è stato spontaneo. A casa mia si è sempre parlato apertamente e con serenità di questa malattia
“Non ricordo quando è stato che ho capito che mio fratello aveva un difetto della visione – racconta Simone – quando gli hanno fatto la diagnosi io avrò avuto più o meno un anno, per me Samuele è stato sempre così, con gli occhiali un po’ più spessi degli altri, con qualche difficoltà a fare le scale. Forse è stato alle scuole medie che ho realizzato che c’era una malattia, ma questa cosa è sempre stata vissuta da tutti in famiglia con molta serenità e naturalezza. Siamo cresciuti insieme e le cose sono venute spontaneamente, segnalargli la presenza di un ostacolo basso, raccontargli alcune scene al cinema, anche se magari qualcuno in sala si lamentava; per me sono tutte cose normalissime. Ricordo che per un periodo doveva andare in ospedale per delle terapie, a volte sono andato con lui altre no, non mi sono mai sentito obbligato e non è mai stato un peso, passare il tempo con mio fratello è sempre stato un piacere. L’ho sempre aiutato nelle piccole cose e in cambio ho ricevuto grandi lezioni di vita. Se avevo delle domande le facevo, prima poi crescendo direttamente a lui: la retinite non è mai stata una cosa nascosta o misteriosa, era semplicemente una componente della nostra quotidianità. Lui non mi ha mai fatto pesare di essere quello a cui non è toccata la malattia, sappiamo che nella lotteria dei geni va così e basta. Visto che il mio approccio alle cose è piuttosto scientifico – non a caso sono laureato in Geologia marina – nel tempo ho cominciato a voler capire di più dei meccanismi della retinite e spesso ho seguito i convegni medici. Sappiamo che arriverà un giorno in cui perderà la vista del tutto, e mi dispiace, ma so che io, la mia famiglia, la sua compagna e i suoi figli saremo sempre al suo fianco”
Il ricordo più brutto? Quando qualcuno lo prendeva in giro. Il periodo più bello? Quando lui ha era allenatore della nostra squadra di basket, un leader nato!
“Certo, non sono state solo rose e fiori, qualche ricordo poco simpatico ce l’ho. Tra i ricordi più brutti ci sono quelli di quando a scuola alcuni lo prendevano in giro per gli occhiali spessi o gli facevano scherzi approfittandosi del fatto che non vedeva bene, io lo difendevo e a volte sono a che arrivato alle mani con altri ragazzini, cosa per la quale sono sempre stato poi sgridato a casa. Ma in fondo sono stati solo degli episodi all’interno di tante cose che abbiamo vissuto insieme, anche se lui era più grande. Io da ragazzino giocavo a calcio, poi ho scelto di cambiare sport sotto suggerimento di mio fratello e giocare a basket. Ho giocato sotto di lui per 5 anni e quando avevo 19 anni ho avuto l’occasione di giocare in serie D per due anni. La società ha chiuso e sono tornato a giocare di nuovo insieme a Samuele. Sì, non ci vedeva bene ma giocava a basket, e poi è anche stato per molti anni allenatore della nostra squadra, e lì ha davvero fatto un capolavoro, ho bellissimi ricordi di quel periodo. Non solo abbiamo ottenuto grandi risultati sportivi, ma anche umani. Nella nostra squadra c’era anche un ragazzo con ritardo cognitivo, ma noi riuscivamo a trattarlo come tutti gli altri giocatori, e gli vogliamo ancora un sacco di bene. Anche se molti di noi non giocano più siamo rimasti uniti e di quel periodo parliamo spesso, che con tutti gli aneddoti ci sarebbe da scriverci un libro. Nel fare l’allenatore mio fratello si è mostrato per quel che è: un leader nato, una persona fortemente carismatica, uno che se anche arrivavi agli allenamenti con poca voglia ti faceva diventare un leone. E così poi è sempre stato ed è nella vita. Non so se sia stata la malattia a renderlo così o se è il suo carattere, non si può fare la distinzione, semplicemente la retinite è parte di lui come lo è il fatto che è alto un metro e 80 o che è uno dei più bei ragazzi della nostra città”.
Da mio fratello ho imparato a non pormi limiti e a provare a tirare fuori il meglio da me stesso, ora provo ad insegnarlo ai miei alunni
“Mio fratello non si è mai considerato un malato o un disabile, non ha mai chiesto nemmeno l’invalidità anche se potrebbe ottenerla: non può guidare la macchina e se fino a qualche anno fa si muoveva in bici per la città poi ha dovuto smettere, perché la malattia progredisce, ma certo non è uno che rimane in casa, semplicemente si muove con i mezzi pubblici. Lo sappiamo che arriverà un giorno in cui perderà la vista del tutto, ma nonostante questo lui non dà mai a nessuno l’idea di essere malato, chi lo conosce per la prima volta spesso non se ne accorge nemmeno. Sam non si è mai posto un limite, ha sempre fatto tutto quello che può. C’è stato il basket ma anche la musica, era bravo anche in quella, suonava e poi aveva fondato una delle prime web radio in società con un amico, poi nel tempo chiusa. Oggi si divide tra il lavoro e i due figli, ma certo non è tipo da stare a casa in pantofole. Da mio fratello ho imparato tantissimo, è stato un fratello maggiore esemplare: assorbire la sua filosofia di vita a volta è stata dura ma grazie a lui sono riuscito a migliorarmi. Ho visto come lui è stato capace di tirare fuori da sé stesso il meglio e superare ogni ostacolo possibile. Ho capito che se riesci a vivere almeno all’80% delle tue possibilità hai già ottenuto un enorme risultato: spessissimo ci accontentiamo di molto di meno, mettendoci da soli dei limiti. E vivendo con Samuele ho anche imparato tanto sulla disabilità, ho capito il valore di un posto riservato o di uno scivolo e tutte queste cose provo ogni giorno a trasmetterle ai ragazzi con cui lavoro cominciando con il dare il buon esempio. Dopo la laurea, infatti, ho scelto di insegnare e ho trovato lavoro in questa scuola di recupero anni scolastici. I ragazzi che la frequentano hanno spesso alle spalle delle storie terribili, che si fa fatica anche ad immaginare, vorrei aiutarli a sviluppare le proprie capacità, a tirare fuori il meglio da sé stessi”.
Silvia ha 40 anni, è madre di due bimbi e vive in una bella città del nord Italia. Marco, suo fratello, ha 34 anni ed è nato con una rara sindrome genetica che comporta deficit intellettivo, scarsa forza fisica e degenerazione della vista. È un adulto ma il suo sviluppo mentale è simile a quello di un ragazzo di 13. Silvia è dunque una ‘sibling’, oggi consapevole di cosa questo abbia significato per lei, per questo ha voluto condividere qui la sua esperienza, scrivendocela, perché parlarne la emoziona ancora troppo.
“Quando è nato mio fratello avevo già 6 anni. Le difficoltà iniziarono già nella gravidanza: ricordo mia madre a letto e il tavolino che usava per mangiare. Temo di non ricordare se sapessi o no il motivo esatto di quella immobilità. Ma mi rimase impressa, tanto che in seguito, quando studiai le teorie dell’evoluzione, pensai:‘Forse, secondo la Natura, mio fratello non doveva nascere e quella gravidanza difficile era stato il segno’.
Il primo ricordo strano di mio fratello è molto nitido: lui stava seduto vicino a un mobile, che aveva un ripiano aperto con i suoi giochi. E dondolava. Avanti e indietro. Non avevo mai visto un bambino comportarsi così. Sentii parlare di autismo e di movimenti automatici.
Mia madre, finito l’anno di maternità, non rientrò al lavoro. Lo avrebbe fatto più tardi, quando Marco avrebbe compiuto 6 anni, ma chiese un contratto part-time; in ogni caso, di lì a pochi anni, sarebbe rimasta a casa definitivamente. Questo ha generato in me la convinzione che fossimo poveri, per cui non ho mai osato chiedere molte cose. Non mi accorsi che Marco aveva superato abbondantemente l’anno di età e ancora non camminava. Poi un giorno la nostra splendida pediatra ebbe un’intuizione: “Forse questo bambino non ci vede bene…” Marco aveva 2 anni, quando ebbe il suo primo paio di occhiali. Pensavamo tutti che quei piccoli aggeggi rotondi sarebbero stati la soluzione a molti problemi, che Marco da quel momento avrebbe recuperato tutte le tappe della crescita, rispetto alle quali era già visibilmente in ritardo. Mia madre pensava: “Be’ se pure in ritardo, prima o poi arriverà!” Ora sappiamo che non è così.
Per fortuna, però, Marco uscì dal mondo segreto che si stava creando e smise di dondolare. Mi dissi: “Stava diventando autistico, ma l’abbiamo salvato!!!”. Ricordo dottori, malattie frequenti, psicologi… Io che chiedo a un medico: “E io cosa posso fare per il mio fratellino?” e lui che mi spiega semplici attività.
Siccome Marco era sempre malato, i miei nonni, che passavano l’inverno in Liguria, lo portarono via con loro. Ogni sabato partivamo con la macchina per raggiungerli e tornavamo la domenica sera. Per passare il tempo del viaggio, inventavamo storie sui nomi delle gallerie (e per andare in Liguria ce ne sono moltissime!): Tana della Volpe, Ciutti, Pero… Ora che sono madre, penso che sarei impazzita, a separarmi a quel modo da mio figlio così piccolo!
Mia madre si appoggiava moltissimo a mia nonna, per cui non ho mai dovuto stare da sola o in ospedale ad aspettare Quello che forse è mancato è stata una persona di fiducia esterna alla famiglia, magari qualcuno dell’oratorio, non tanto per confidarmi, perché allora ritenevo di non avere proprio un bel niente da confidare, quanto piuttosto per stimolarmi a esprimermi un po’ di più, per farmi capire che anche io potevo avere qualcosa da dire e potevo dirlo.
Tuttora, nonostante mi ritenga una persona realizzata, sono tremendamente imbranata nei rapporti sociali, sto benissimo da sola, fuggo i discorsi frivoli delle altre donne. E mi stupisco grandemente che i miei colleghi si ricordino il mio nome!!!Ricordo i sensi di colpa in famiglia, per la consapevolezza che mio fratello era nato così a causa di un gene trasmesso da loro. Credo che mio padre non l’abbia digerita tuttora
Poi la pediatra ebbe un sospetto: forse mio fratello aveva una sindrome genetica; spedì i miei dallo specialista e lui confermò i sospetti: era una sindrome rarissima, di cui quasi nessuno aveva sentito parlare in Italia. Ricordo i sensi di colpa in famiglia, per la consapevolezza che mio fratello era nato così a causa di un gene trasmesso da loro. Credo che mio padre non l’abbia digerita tuttora. Una volta, un caro cugino mi disse: “Gli sta addosso come un’aquila” e intendeva che, in pubblico, non toglieva gli occhi di dosso da Marco ed era sempre pronto a fargli notare se sbagliava qualcosa. Tuttora è così. I miei genitori mi spiegarono molto bene la situazione, ma mi proibirono di parlare di quella ‘malattia’ con chiunque. Col tempo mi convinsi di averla un pochino anch’io, questa malattia, anche se in forma recessiva. Per fortuna mio fratello non ha un aspetto vistosamente diverso, né comportamenti eccessivamente insoliti, per cui non mi sono mai sentita in imbarazzo in sua presenza. Forse, però, questo dipende anche dal fatto che non abbiamo frequentato gli stessi ambienti sociali, visto che abbiamo una forte differenza di età: non siamo mai stati nello stesso istituto scolastico, né nello stesso gruppo di catechismo o di sport.
Come tante persone il cui problema principale è cognitivo, per accorgersi della disabilità di Marco bisogna parlarci per un po’, prima di accorgersi dei suoi argomenti circoscritti e ripetitivi. Ha molte ansie: dei rumori forti (motori, scoppi, pianti, ma anche palloncini) o di arrivare tardi a un appuntamento. Chiede continuamente conferme sul suo comportamento. E per fortuna, nel pacchetto della sindrome, è incluso anche “carattere socievole”!Ho vissuto tutta la giovinezza pensando di essere terribilmente cattiva perché ero gelosa. Marco veniva accompagnato ovunque, io dovevo organizzarmi da sola,
Non ricordo esattamente per cosa fossi gelosa di mio fratello, ma devo esserlo stata. E tremendamente, anche! A dire il vero, lo sono tuttora e non riesco a scrivere queste righe senza piangere. Probabilmente ai tempi devo essermi confidata con mia madre su questo aspetto e ricordo le sue parole di risposta: “Non devi essere gelosa, perché il tuo fratellino ha più bisogno di te. Tu sei fortunata, puoi fare tutto. Lui ha bisogno di noi e noi dobbiamo pensare a lui più che a te, perché lui ha più problemi”. Ma come si fa a impedire alla gelosia di sorgere? Ho vissuto tutta la giovinezza pensando di essere terribilmente cattiva. Un’altra cosa che mi ha sempre dato fastidio è che mentre mio fratello veniva (ovviamente) accompagnato ovunque, quando invece ero io a chiedere un passaggio la risposta era costante: “Con chi vai e con chi torni?” Se avevo un nome, perfetto, avrei potuto anche stare in giro fino al mattino (cosa che feci regolarmente da quando presi la patente fino al matrimonio); se no, niente da fare. Pochi anni fa, mia madre mi confessò che quei rifiuti erano dovuti alla loro stanchezza, a cui non potevano sottrarsi quando invece si trattava di Marco. E si mostrò molto sollevata dall’idea che avevano avuto, di farmi frequentare l’oratorio nei weekend: mentre io ero là, infatti, loro potevano rilassarsi, poiché Marco per fortuna non necessitava di grandi attenzioni nel quotidiano e io non c’ero. Quando commentai che ero stata quindi parcheggiata in oratorio, mia madre rispose: “Ma almeno eri in un ambiente educativo sicuro”. Ricordo infine la questione scatenata dalla famosa patente: sempre pensando che fossimo poveri, non volli iscrivermi a scuola-guida, per cui avevo necessità di qualcuno che mi insegnasse a guidare. Dovevo pregare mia madre in cinese per accompagnarmi a guidare nei parcheggi vuoti, perché lei aveva paura. Quando si trattò, invece, di vincere le sue paure verso i cani e prendere un cucciolo per mio fratello (esperimento di pet-therapy poi miseramente fallito), lo fece senza troppe remore.
Una volta i miei genitori uscirono e ci lasciarono a casa soli. Mio fratello doveva avere meno di 6 anni, per cui io ne avevo meno di 12. Lo lasciai a guardare la tv e me ne andai in camera mia. Quando i miei tornarono, trovarono che Marco aveva vomitato e poi si era addormentato in mezzo allo sporco. Ricordo tuttora la sfuriata, ma oggi mi chiedo se davvero i miei genitori ce l’avessero con me o piuttosto con loro stessiLa maggior parte di noi siblings, chi più chi meno, è il ritratto del bravo bambino. “Non vorrei disturbare” è tuttora il mio motto. Conosco molti siblings con terribili sensi di colpa per essere usciti dalla casa di origine
Uno dei problemi che secondo me emerge quando in casa c’è un figlio con disabilità è che i genitori rischiano di non crescere. Mi spiego: solo alcuni siblings reagiscono con aggressività alla situazione, diventando ragazzi difficili; la maggior parte di noi è, chi più chi meno, il ritratto del bravo bambino. Io ne sono un esempio. “Non vorrei disturbare” è tuttora il mio motto e “Chi fa da sé fa per tre” è il mio stile di vita. Quando arriva l’adolescenza, i genitori non hanno modo di evolversi, di capire che i figli stanno diventando persone altre, perché uno di loro resterà per sempre dipendente da loro, anche economicamente; gli altri, invece, tenderanno a evitare il conflitto, a “non dare un dispiacere a mamma e papà”. Quindi è molto difficile emanciparsi. Non molto tempo fa, poiché avevo manifestato delle difficoltà economiche, mio padre mi disse: “D’altronde, sei tu che ti sei voluta sposare…” Conosco molti siblings con terribili sensi di colpa per essere usciti dalla casa di origine, perché si sentono (o gli viene proprio detto!) dei figli “cattivi”, ingrati, che abbandonano il padre e la madre proprio quando essi si avviano alla vecchiaia.
Dallo psicologo ci sono andata, a 28 anni, dopo la nascita del mio primo figlio, di mia iniziativa. Ne saltò fuori un conflitto irrisolto con i miei genitori, non con Marco. Poi i gruppi di siblings adulti mi hanno dato la consapevolezza di me.
Mia madre mi ha raccontato di avermi chiesto, a volte, se volessi parlare con uno psicologo, ma che io gli risposi sempre di no, che non ne vedevo il motivo. Certamente: tra tutte le persone che si rivolgono a uno psicologo, quanti ci vanno di loro iniziativa e quanti su consiglio di un amico? Comunque, dallo psicologo ci sono andata, eccome! Ma a 28 anni, dopo la nascita del mio primo figlio. E ci andai di mia iniziativa, perché la mia vita non mi piaceva più, mi sentivo prigioniera, ma pensavo che una persona della mia cerchia di affetti avrebbe fatto solo discorsi morali sui doveri di una madre. Saltarono fuori due cose: la prima, che avevo “tirato troppo la corda” e stavo male perché stava per rompersi; la seconda, un conflitto con i genitori (e non con Marco, come ci si poteva aspettare, visto che è stata la sua nascita a scombussolare la famiglia). Ebbene, questo secondo conflitto è tuttora irrisolto, ma grazie alla psicoterapia ho imparato a conoscere le mie armi di difesa e usarle per rinchiuderlo (quasi) prontamente quando salta fuori. Insomma, a conviverci, a fare in modo che resti un problema circoscritto e che non strabordi in altri ambiti della mia vita. Che è lo scopo principale della psicoterapia, se non erro.
Ma c’è un aspetto psicologico secondo me più importante dei conflitti, della gestione della sofferenza, ecc., che è la consapevolezza di sé. E questa mi è arrivata dai percorsi di sostegno per sibligs adulti. Ho imparato a vedere anche tutte le mie capacità, che ho acquisito negli anni, ma che non sapevo di avere. So fare un sacco di cose, dal tingere i vestiti a cucinare, dal cambiare una gomma a montare un mobile. Mi reputo una persona forte, determinata. Mi piace dire che non ho paura di nessuna situazione. Perdo la testa molto raramente, mi adopero per cercare soluzioni, nessun ostacolo mi sembra insormontabile. Non mi piace giudicare gli altri, perché penso che tutti abbiano il loro dolore segreto. Tratto tutti con rispetto, perché penso che siamo solo povere creature, tutte sulla stessa barca. E penso che gli unici beni per cui valga la pena preoccuparsi siano i figli e la salute. Tutto il resto è solo un sassolino nel cammino della vita e basta fermarsi un momento per togliersi il fastidio.I miei genitori hanno fatto la scelta di non avere altri figli, dopo Marco. Dovrò badare ai miei genitori anziani come se fossi figlia unica, ma in realtà avrò anche un fratello di cui occuparmi.
La mia vita oggi è molto soddisfacente. Ho sempre voluto una famiglia mia, per cui mi sono adoperata per finire l’Università, trovare un lavoro. Mi sono sposata e ho 2 bambini. Ovviamente, come moltissimi siblings, faccio un lavoro di cura verso gli altri, cioè l’insegnante. I miei genitori mi sostengono moralmente in molte mie iniziative. Abbiamo sempre pensato di vivere vicino alla mia famiglia di origine, pensando al futuro. Ora che siamo effettivamente vicini di casa, non so se sia stata davvero una buona idea!!! Forse, avremmo potuto fare ognuno la propria vita e poi pensare ad avvicinarsi tra qualche anno. Dovrò badare ai miei genitori anziani come se fossi figlia unica, ma in realtà avrò anche un fratello di cui occuparmi. I miei genitori hanno fatto la scelta di non avere altri figli, dopo Marco, per timore di un secondo figlio con la stessa sindrome. Chissà, se avessero tentato la sorte forse ora avrei un altro familiare su cui contare. Per fortuna Marco è in grado di curare la sua persona in autonomia (seppure con supervisione). Con il tempo ha perso alcune abilità che invece aveva in adolescenza, per cui non penso sarebbe più in grado di cucinarsi un pasto. Credo che, se dovesse rimanere solo, non avrebbe bisogno di assistenza continua, ma certamente di una persona che si occupasse giornalmente della casa, spesa, bucato, ecc. I miei genitori si fanno tanti problemi per “costruirgli un patrimonio”, in modo che in futuro non debba “pesare sulla mia famiglia”. Quello che spesso i genitori non pensano è che la maggior parte dei sibling non si sognerebbe mai di abbandonare il fratello e che il problema, a meno di eccezionali esigenze terapeutiche, non sarà economico, ma di tempo e preoccupazioni da dedicare. Quando sarò vecchia, non ho intenzione di lasciare Marco in una casa con una badante e io stare in un’altra con mio marito: quando i figli saranno grandi, che sarà mai avere mio fratello in giro per casa? Anzi, sarà più facile prendersene cura! E non sarà certo il costo di vitto e alloggio a mandarmi in rovina.
ROMA – Alessandra è la mamma di Giulia (8 anni) e Lorenzo (11). Ha voluto raccontarci la sua storia, per aiutare a far luce sul vissuto dei bimbi che vivono a fianco di un fratello o una sorella affetti da una malattia (i siblings) che nel caso di Lorenzo è rara, anzi, rarissima e senza un nome: solo una sigla, quella della mutazione spontanea che l’ha colpito.
“Mia figlia Giulia, parlando della forza, mi ha detto ‘mamma lo so che cosa significa essere forti, è come quando sono stata tanto tempo da sola a casa dei nonni e non ho versato nemmeno una lacrima’. Si riferiva a quando, dopo un crescendo di crisi epilettiche, un giorno, abbiamo fatto i bagagli e abbiamo ricoverato Lorenzo, il mio primo figlio, al Bambino Gesù di Roma. Io e mio marito siamo partiti dicendo che saremmo stati via solo pochi giorni, e l’abbiamo affidata ai nonni. Invece siamo stati via dieci mesi, e siamo stati davvero assenti: sapevamo che forse lei sentiva la nostra mancanza, ma Lorenzo era entrato prima in rianimazione, poi in neurologia. Quella di Lorenzo è una malattia rarissima, non si sapeva che fare e non sapevamo cosa aspettarci: noi eravamo lì notte e giorno, dormivamo lì o in una casa famiglia di fronte all’ospedale: eravamo solo o soli? di fronte a qualcosa di ignoto. Giulia aveva 5 anni e la vedevamo solo quando veniva in ospedale, o nei rari giorni in cui andavamo a casa per qualche ora. Sembrava tranquilla, solo un po’ triste quando dovevamo separarci. I nonni e gli zii dicevano che non faceva capricci, non piangeva: è vero che è stata forte in quel momento, e visto che era forte noi tornavamo ad avere occhi e testa solo per Lorenzo. Ma quella forza nascondeva una sofferenza, oggi, mi rendo conto di come deve essere stata dura anche per lei, di come si possa essere sentita sola, ma in quel momento per questo pensiero c’era davvero poco spazio”.
Quando dopo dieci mesi siamo tornati a casa il muro di Giulia è crollato, e dietro il muro c’era la rabbia per essere stata abbandonata.
“Prima di questo ricovero lunghissimo Lorenzo aveva dei problemi di salute, in particolar modo le crisi epilettiche, ma andava a scuola, parlava, giocava e faceva una vita normale: fino ai 7 anni il loro era un normale rapporto tra fratelli con soli 3 anni di differenza: cantavano, litigavano, andavamo al parco insieme, facevano tutte le cose che i fratelli fanno di solito. Poi tutto è cambiato, e quando dopo dieci mesi siamo tornati a casa il muro di Giulia è crollato, e dietro il muro c’era la rabbia per essere stata abbandonata, c’era la volontà di farcela pagare per averle detto che saremmo stati via solo pochi giorni: ora richiedeva tutta la nostra attenzione, ma di nuovo noi non eravamo in grado di dargliela. Lorenzo era entrato in ospedale con le sue gambe, tornava in sedia a rotelle, paralizzato, stomizzato, senza poter parlare. E così prima l’abbiamo privata di noi per 10 mesi, poi, al ritorno, le abbiamo tolto anche la sua cameretta: quella stanza era più adatta alle esigenze del fratello. Lei era arrabbiata con noi, con me in particolare, e non senza motivo, perché al ritorno sono stata io ad allontanarla proprio quando chiedeva attenzioni. Lorenzo era immobile, era malato, le invece era sana, era ciò che il fratello non sarebbe più stato: era un dolore troppo grande e credo sia stato per questo che ho avuto un periodo di rifiuto.
Quando la sua forza è finita Giulia ci ha presentato il conto, la sua richiesta di attenzioni è via via aumentata fino al punto che, cominciata la scuola elementare, ha avuto il rifiuto per i vestiti: tutto le stringeva, la graffiva, non voleva nulla addosso, e la mattina per vestirsi erano tragedie incredibili.Abbiamo capito che da soli non potevamo farcela e abbiamo chiesto aiuto. Ora va meglio, anche se Giulia teme sempre di essere messa da parte e chiede tante attenzioni
Noi eravamo stanchi, distrutti, e a volte il dolore ti fa uscire frasi che non dovresti dire, come “non farei capricci, tu stai bene, pensa se fossi come Lorenzo” oppure “Ti lamenti che non vuoi andare a scuola ma pensa che sei fortunata, Lorenzo non può andare da nessuna parte”. Abbiamo capito che da soli non potevamo farcela, dovevamo chiedere aiuto, così ci siamo rivolti alla neuropsichiatra di Lorenzo ed è dal novembre 2016 che seguiamo un percorso che ci coinvolge tutti, ci ha aiutato molto, anche se non tutto è risolto.
Giulia è ancora una bimba che teme di essere messa da parte e fa di tutto per essere al centro dell’attenzione, ora a scuola è brava ma all’inizio era spesso distratta e bisognosa di sfogo, il suo atteggiamento verso il fratello e ambivalente. A volte cerca di giocarci, altri periodi lo ignora: tempo fa ha fatto un disegno in cui fa capire chiaramente che quando Lorenzo stava bene tutti erano felici, mentre da quando lui è malato sono tutti tristi, e lei gli vuole un po’ meno bene, perché in fin dei conti lo ritiene responsabile di questo. È gelosa delle attenzioni che riservo a lui, per ogni bacio o abbraccio a lui, lei ne vuole altrettanti, e soffre del fatto che con lui io mi mostro sempre allegra e positiva – per dargli la maggiore serenità possibile – mentre con lei non fingo, a volte sono felice altre la rimprovero. E’ come se a lui fosse riservato il meglio di me e a lei no. Per fortuna che fin dalla scuola materna sia le maestre che i compagni di classe non l’hanno messa a disagio, molti di loro conoscevano Lorenzo, hanno visto il suo cambiamento, erano affettuosi e non si sono mai rifiutati di venire a giocare a casa nostra. Lei non si vergogna del fratello, anche se le danno ancora un po’ fastidio gli sguardi della gente per strada.Ora stiamo traslocando, la nuova casa è a misura di Lorenzo. La stanza di Lorenzo è grande, matrimoniale, quella di Giulia è una cameretta
Quando è nata Giulia avevamo comprato ‘la casa della vita’ e assunto una tata a tempo pieno, tutti simboli di stabilità. Ogni cosa era organizzata, predisposta, non sapevamo che di lì a poco sarebbe cambiato tutto, per tutti. Ora la sera lei cena con la tata, perché noi dobbiamo preparare Lorenzo per la notte, e siccome uno di noi rimane sempre con lui non esistono occasioni alle quali possiamo andare tutti insieme: il saggio di ginnastica o il cinema o il parco, dove non riesco a portarla perché ci sono troppi ricordi. Quando siamo tornati a casa dall’ospedale abbiamo scambiato le camere tra i bambini e Giulia mi ha detto “Mamma quando Lorenzo guarisce ce le scambiamo di nuovo”, allora speravamo tutti che potesse esserci una ripresa, che alcuni cambiamenti potessero essere temporanei: oggi non lo dice più e nemmeno noi.
Ora stiamo traslocando, la nuova casa è a misura di Lorenzo, al piano terra, con i binari al soffitto per i sollevatori. La stanza di Lorenzo è grande, matrimoniale, quella di Giulia è una cameretta. A guardare la vita con i suoi occhi e la sua esperienza l’impressione è sempre quella che per lei ci sia meno spazio, nei nostri pensieri come nella quotidianità. Certamente non è così, ci siamo riorganizzati, io ora passo molto più tempo con lei e la riprendo anche da scuola, ma il suo metro di paragone rimane Lorenzo. Al punto che qualche anno fa, alla maestra che domandava che cosa voleva fare da grande, lei ha risposto “da grande voglio fare la malata”. Essere la sorella di un bimbo malato e accettare che venga trattato in modo diverso, perché i suoi bisogni sono diversi, non è facile: Giulia lo sa, ma non per questo ancora oggi lo accetta del tutto, ed anche per questo il nostro percorso di supporto continua.
Ultime News
Al via il Progetto di A.B.C. Associazione Bambini Cri Du Chat Aps “Conversazioni con i Siblings”
Saranno sei gli incontri online, ideati in collaborazione con la dr.ssa Laura Gentile, psicologa clinica e psicoterapeuta e responsabile scientifico del Progetto Rare Sibling, organizzati da A.B.C. Associazione Bambini Cri Du Chat Aps per parlare con le sorelle e i fratelli (i sibling). “Essere fratello o sorella […]
Celebrata la Giornata dedicata ai Rare Sibling dalla quale arriva forte un messaggio: mai più soli!
Hanno la stoffa di autentici supereroi, ma purtroppo uno dei loro ‘doni’ è quello dell’invisibilità. Si stima siano mezzo milione in Italia: sono i ‘rare sibling’, bambini e ragazzi fratelli e sorelle (sani) dei malati rari. Hanno sogni declinati al futuro ma spesso rinunciano a […]
31 maggio Giornata Europea dedicata ai Sibling: la famiglia al centro delle celebrazioni
“Per i figli abbiamo tutti un amore smisurato: io le dico sempre che è ‘il giglio del mio cuore’, perché mi ha dato tanto. Purtroppo questa malattia è degenerativa e progressiva e ha bisogno di camminare sottobraccio a qualcuno che la sostenga, oppure è costretta […]