Maria e Benedetta

È difficile spiegarlo a parole, ma per me non siamo io e lei, non siamo due persone singole, siamo un noi

 Maria ha 27 anni e vive a Girifalco, in provincia di Catanzaro. Molto del suo tempo lo trascorre però a Messina dove frequenta la facoltà di psicologia. Per poter studiare, in alcuni periodi dell’anno, viaggia ogni giorno, sottoponendosi alla fatica di lunghi ed estenuanti spostamenti. Perché tra Girifalco e Messina non passano soltanto quasi 150 chilometri, ma c’è di mezzo lo Stretto. La ragione per cui Maria si sobbarca quotidianamente una fatica così grande è perché ha scelto di non lasciare la famiglia, in particolare sua sorella Benedetta che ha 16 anni ed è la terza di tre sorelle, la seconda delle quali si chiama Emanuela e ha 25 anni. Da quando è nata, Benedetta ha una malattia rara chiamata sindrome cardio-facio-cutanea, che comporta una grande varietà di manifestazioni, tra cui ritardo psicomotorio, anomalie cardiache e problemi alimentari.

È un piacere condividere la mia storia, anzi la nostra storia: quella mia e di Benedetta”, esordisce Maria. “È la prima volta che do voce a quelle emozioni, che ormai si susseguono da 16 anni, ma nonostante la timidezza capisco quanto possa essere importante”. Fin dall’inizio, infatti, la presenza di Benedetta condiziona la vita di Maria in tutti suoi aspetti, compreso quello della scelta universitaria. “Ho sempre voluto studiare psicologia”, dice. “Ma quando mi sono iscritta all’università, in Calabria la facoltà non c’era ancora, bisognava arrivare a Messina. Per anni ho fatto la pendolare con orari molto duri, ma non volevo lasciare la famiglia. E così a sera, quando tornavo a casa, mi sembrava di aver vissuto due giornate. Per fortuna ora le cose vanno meglio, perché ho quasi concluso il mio percorso di studi e non sono più costretta a viaggiare ogni giorno della settimana”. Quando Benedetta è nata, Maria aveva già undici anni. “La sindrome cardio-facio-cutanea è stata diagnosticata al Gemelli. È una forma più grave della malattia di Noonan. Benedetta non vede, non parla, non cammina. Noi siamo i suoi occhi, la sua bocca, i suoi piedi. La malattia rara ti pone di fronte alle tue paure: o le affronti o scappi via. E io sono rimasta, anche se ci sono stati dei momenti in cui sarei voluta fuggire. Sono felice di non averlo mai fatto, altrimenti non sarei mai diventata la persona che sono adesso”.

Della nascita di Benedetta, Maria non ricorda tutti i particolari. “È nata a sette mesi”, racconta. “Ci aspettavamo una sorellina che avesse bisogno di molte cure, ma non che ci sconvolgesse totalmente la vita come ha fatto Benedetta. Quando a mia madre si sono rotte le acque, io ero al cinema con le amiche. E quando sono arrivata in ospedale, guardavo le sue labbra così carnose e non capivo da chi le avesse riprese, visto che nessuno in famiglia le aveva come lei. Una volta tornata a casa, qualche settimana più tardi, non era come tutti gli altri neonati. Non beveva il latte dal seno o dal biberon, ma mia madre era testarda e, un po’ alla volta, è riuscita a farle accettare il biberon, che continua ancora oggi a usare al posto del sondino”. Fin da subito, quindi, Maria si rende conto di dover ridimensionare le proprie aspettative: “Avevo atteso con ansia l’arrivo di quella sorellina”, ricorda, “avrei voluto che diventasse quanto più simile a me possibile. Immaginavo già il momento che avremmo studiato insieme o quando avrebbe potuto cominciare a giocare a pallavolo come me. Sono stata sempre molto protettiva con le mie sorelle, volevo fare la sorella maggiore. Quando è nata Emanuela avevo due anni e ho provato gelosia, Benedetta invece rappresentava un po’ la mia seconda occasione: ero davvero felice, pensavo che avrei condiviso tutto il mio mondo con lei”.

“Quando Benedetta è arrivata a casa, lì per lì non comprendevo perché gli altri non manifestassero la mia stessa gioia”, prosegue Maria. “Mi sono resa conto che aveva una malattia rara di colpo, non è una cosa che ho avuto il tempo di comprendere tappa dopo tappa, di metabolizzare un po’ alla volta. È come se avessi aperto gli occhi all’improvviso. Quando gli altri la consideravano diversa perché non riusciva a mangiare, io non capivo. Dopo qualche mese siamo andati a Roma, all’ospedale Bambino Gesù, dove ho visto reparti in cui ti rendi davvero conto di cosa siano il dolore e la tristezza. Lì comprendi cosa sia davvero la sofferenza e quanto possa essere doloroso trovarsi nella condizione di non poter aiutare tuo figlio, tuo fratello, tua sorella. Vedere quei bambini che non riuscivano a fare nulla da soli e avevano bisogno tutto mi sembrava una grande ingiustizia. È intorno a questo periodo che ho compreso cosa succedeva a Benedetta, ma ho capito tutto da sola. Non ho nessun ricordo di mio padre e mia madre che mi spiegavano cosa stesse accadendo, ma solo di me stessa che a un tratto mi rendo conto”.

Dopo la diagnosi di sua sorella, Maria cambia. “Sono diventata ancora più riservata e più timida di prima, ma ne ho preso atto solo più tardi”, riflette. “I miei dicono che sono stata sempre una bambina matura con un forte senso di responsabilità, ma dopo aver compreso la situazione di Benedetta lo sono diventata ancora di più. Non ho nessun ricordo di me come di una bambina monella e combina guai, solo verso i 15 anni ho avuto un breve periodo di ribellione, in cui provocavo i miei, soprattutto mio padre. Nel mio caso non era la classica opposizione degli adolescenti, ma piuttosto un messaggio nei confronti dei genitori: guardate che ci sono anch’io. Solo ora capisco che il mio scopo era quello di attirare l’attenzione, di affermare la mia presenza”. Secondo Maria, quando in famiglia entra una malattia rara nulla può rimanere come prima: “Benedetta ha stravolto la vita di tutti noi”, afferma. “Una malattia rara cancella ogni normalità. Io non ricordo la vita prima che arrivasse lei, quando si poteva andare a fare shopping o a mangiare un gelato senza problemi. Ora, se usciamo, qualcuno deve sempre restare a casa con lei. Non è facile portarla fuori, quando era piccola aveva una grande paura dei rumori, e anche oggi qualsiasi imprevisto può farla entrare in crisi. Uscire è uno stress per lei, e noi la proteggiamo facendo delle rinunce. Benedetta non rappresenta un peso”, precisa Maria, “ma la nostra vita è cambiata da quando c’è lei. Ognuno ha il proprio mondo e il nostro è così”.

“Ho rinunciato alla vita universitaria per godermi mia sorella, perché lei oggi c’è e in futuro chissà”, spiega. “Ho rinunciato anche agli amici, a cui non ho permesso di entrare nella mia vita. Sapevano poco della mia situazione familiare e non chiedevano mai di lei. Per questo mi sono allontanata da tante persone e oggi sono un tipo riservato che trova difficoltà a confidarsi. Loro non chiedevano mai di lei, ma io penso che se vuoi conoscere una persona devi conoscere la sua vita a 360 gradi. Quando le mie amiche venivano a casa, si comportavano con apparente indifferenza, facendo finta di niente. Salutavano i miei genitori, non guardavano neanche in faccia Benedetta e poi ci chiudevamo in camera. Le cose andavano sempre così. Lì per lì quell’atteggiamento mi faceva sentire sollevata, ma poi ho capito che mi faceva male: non c’è mai stato un gesto di coraggio da parte loro. Nessuno chiedeva mai niente e tutti facevano finta di nulla. Forse se qualcuno avesse osato domandare, anch’io avrei osato aprirmi di più. Mia sorella Emanuela era diversa, dopo le scuole superiori ha preferito andare via e ora studia a Torino. Credo che sia stata una fuga, ha scelto di chiudere la porta di casa e andare via, ma è impossibile chiudere veramente con la propria storia”.

Benedetta ha scatenato un susseguirsi di emozioni forti nella vita di Maria, a partire dalla rabbia. “Ero arrabbiata perché questa cosa era capitata proprio a noi. Poi la rabbia è svanita, perché altrimenti non riesci più a vivere”. Eppure una malattia rara, per Maria, può insegnarti molte cose. “La malattia ti offre la possibilità di vedere la vita da altri punti di vista. Prendermi cura di mia sorella mi permette di guardare oltre, cosa che poi si estende in tutti gli ambiti: cerco sempre di non fermarmi al problema, ma di cercare la soluzione”. Certo, in alcuni casi le cose sono difficili, ammette: “A volte mi viene da fermarmi e da chiedere aiuto. Io spero sempre di potermela cavare da sola, ma tutti abbiamo bisogno di una mano”. La convivenza con Benedetta, inoltre, ha orientato le scelte di Maria: “Prima di cominciare a studiare psicologia, avevo scelto Scienze dell’amministrazione. Poiché la facoltà era in Calabria, io non ero costretta ad attraversare tutti i giorni lo Stretto. Poi, però, ho capito che volevo sviluppare altre capacità che pensavo di avere. Voglio imparare ad ascoltare gli altri e a fare per loro quello che nessuno è riuscito a fare per me. Voglio imparare ad ascoltare anche quando le emozioni non vengono espresse a parole e riuscire a cogliere gli stati d’animo di chi mi sta intorno”.

La facoltà di psicologia ha fornito a Maria anche strumenti utili per comprendere meglio e rielaborare la propria situazione. “Ho affrontato l’argomento disabilità durante tutto il corso di studi, soprattutto durante l’ultimo anno quando ho studiato psicologia della disabilità. Studiare per quell’esame mi è costato veramente una grande fatica emotiva: ogni singolo paragrafo del libro di testo era come una montagna da scalare. Poi, per caso, ho trovato il sito del progetto Rare Sibling: ho passato una notte a leggere le storie degli altri fratelli e sorelle e, alla fine, ho deciso di fare la tesi di laurea proprio su questo argomento. Sto cercando di fare un buon lavoro, per certi argomenti ci vuole testa e cuore. Io non ho mai incontrato altri sibling nella mia vita e mi è mancato il confronto con persone che vivessero la mia stessa situazione. Solo chi ha un’esperienza simile alla tua, può capire. Ho un ragazzo che ama mia sorella quanto me, ma tante cose non si possono capire al cento per cento se non le vivi in prima persona”.

In futuro spero di realizzare i miei sogni”, conclude. “Vorrei riuscire ad aiutare chi ne ha bisogno ad essere forte. Ma ho paura di immaginare il futuro di Benedetta, perché voglio che lei sia sempre nella mia vita, non posso prendere in considerazione l’idea che un giorno potrebbe non esserci più. Per me lei è la sorella del cuore, non abbiamo potuto gioire nella maniera che mi aspettavo, ma abbiamo potuto fare comunque tantissime cose insieme, siamo riuscite a compensare in altro modo. È difficile spiegarlo a parole, ma per me non siamo io e lei, non siamo due persone singole, siamo un siamo un noi. In questi anni ho riflettuto molto sulla nostra storia, e oggi sono diventata più consapevole e non ho voluto archiviare nulla. Ho voluto affrontare le cose, prendendo tutto quello che viene e cercando di migliorare ogni giorno”.